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venerdì 13 ottobre 2023

La caduta della casa degli Usher - NO SPOILER

19:07
 Sono giorni che nelle storie di Instagram dico che per digerire Flanagan mi serve tempo, che non posso parlarne subito perché devo elaborare per bene, ma se siete mai passati da queste parti sapete bene che mi contraddico in continuazione, e quindi eccoci qua. 
Dopo qualche ora spesa a pensare agli Usher e alla fine della loro dinastia ho deciso di provare lo stesso a scrivere qualcosa a caldo. Per una riflessione più strutturata e magari anche full spoiler potrei fare una live la settimana prossima su Twitch, sempre compatibilmente col periodo infelice.
Vediamo se esce qualcosa di sensato.




Nel suo ultimo lavoro per Netflix, Mike Flanagan ha deciso di trarre ispirazione dai racconti di Edgar Allan Poe. Il livello di ispirazione è lo stesso delle serie precedenti, ovvero piuttosto vago. Dal racconto che dà il titolo alla serie prende la famiglia protagonista, ovviamente, gli Usher. Questi, di Usher, sono magnati dell'industria farmaceutica, vessati da un avvocato - Dupin, chi altro? -  che da anni prova ad incastrarli perché il loro prodotto di punta ha effetti collaterali molto più gravi di quelli dichiarati. Quando i membri della famiglia cominciano a cadere come foglie d'autunno il patriarca, Roderick,  decide di confessare a Dupin le sue colpe, in un lungo racconto che spiega perché degli Usher non sia rimasto più nessuno.

Non so quanto sia appropriato giudicare un prodotto in relazione agli altri del suo showrunner, ma penso che in casi come quello di Flanagan sia un po' inevitabile. Tutto il suo lavoro è una lunga disamina sugli stessi temi e temo che per forza di cose qui mi ritroverò a fare diversi paragoni.
Per la prima volta il regista decide di parlare di una famiglia molto ricca. Non che abbia mai davvero parlato di povertà, le famiglie precedenti sono quasi sempre state borghesi, ma è la prima volta in cui si cimenta con un discorso di classe, e questo cambia le carte in tavola perché prende le tematiche a lui molto care (lutto, famiglia, rapporto tra fratelli, l'abuso di sostanze) ma per forza di cose le affronta in un modo diverso, perché cambiano le posizioni di partenza.
Nelle storie precedenti ci ha abituato ad amori immisurabili: Hugo, il padre dei Crain, ha perso i figli per quasi tutta la vita per proteggere l'immenso amore che avevano per la madre, in Bly Manor Henry priva i bambini della sua presenza affinché mantengano un ricordo pulito dei loro genitori, e così padre Pruitt mente sulla sua identità per la figlia. Sono tutti ritratti genitoriali costruiti su una concezione straordinariamente generosa dell'amore, che vede l'amante annullare se stesso per proteggere l'amato. La vita di figli tanto amati cambia e li rende le persone che sono proprio perché benedetti da un sentimento così altruista, nel bene e nel male. Tutto l'immenso amore che ha messo nelle prime tre serie, ma che è presente anche in alcuni dei film, qui viene messo da parte. 
Gli Usher sono troppo potenti per volersi davvero bene. Tolte di mezzo le madri - frequente in Flanagan, sono i papà il centro del discorso - rimane un uomo milionario con sei figli che non ha idea di cosa fare di loro. Raggiunta un'età consona li omaggia di un'importante soglia di denaro - condizionale, però, perché viene elargita solo se c'è una buona idea di business in cui andrà investita - e limita la relazione allo stretto indispensabile. Può permettersi di farlo perché nessuno dei figli reclama la sua presenza, almeno non direttamente. Questi figli avuti in giro per il mondo con molte madri diverse sono arrivati a lui in virtù della vita agiata che lui poteva offrire e non hanno chiesto altro. Lui ha chiesto loro di tenere bene il nome della famiglia, con investimenti sensati e senza troppe scelleratezze. Un rapporto basato sullo scambio economico di cui tutti hanno beneficiato fino a che, uno dopo l'altro, i figli hanno iniziato a morire.
Roderick, dal canto suo, non aveva altro da offrire, e si sono bastati. Quando è giunto per lui il momento della confessione a Dupin, non è stato un momento doloroso per salutare i figli, ma solo l'unica chiusura possibile ad un disastro annunciato. Aveva creato delle condizioni tali per cui la storia non poteva che finire così, e ha agito di conseguenza. Questa non è la storia di Hugo Crain, in cui un personaggio pieno di disperazione ci fa fare un viaggio che lo renderà l'eroe. Queste sono persone che non si vogliono bene perché nemmeno si conoscono. Condividono il sangue ma alcuni nemmeno condividono il nome, condividono sporadicamente dello spazio senza che tra di loro scorra alcuna parola buona. Roderick coltiva questo clima ostile, ponendo i figli uno contro l'altro come in una partita a scacchi in cui il solo vincitore possibile fosse sempre e solo il patrimonio. 
Annullata questa componente, che nei lavori precedenti era fondamentale, quindi, cosa resta? Resta un discorso sociale di straordinaria importanza, perché se non è l'amore che ti guida, cosa può essere? In questi otto episodi prova a dimostrarci che la sola risposta possibile dovrebbe essere la morale, ma che non esiste morale in chi ha troppo potere per mettersi in relazione all'altro. La caduta della casa degli Usher diventa un dialogo sull'etica personale, su quali valori ti guidano quando non hai una guida.
Privati della radice principale, quella famigliare, i figli di Roderick sono smarriti. Sono persone di immenso successo, con uno sconvolgente potere tra le mani, ma quando vengono messi di fronte alla possibilità di fare la scelta giusta non sanno nemmeno da che parte cominciare e prendono la sola strada possibile: quella egoista. Ogni episodio vede un personaggio messo di fronte alla possibilità di essere una persona migliore, e nel momento in cui si capisce che queste persone sono senza speranza si ha già la risposta. E infatti che siano tutti morti non è uno spoiler, è l'inizio della serie.
La loro posizione li ha privati del contatto con l'umanità, anche il più semplice, e sono diventati mostruosi. Inconsapevolmente, mostruosi, perché per otto episodi non vedremo mai la minima traccia di pentimento. La società, che loro comandano come fossimo in un teatro di marionette, non ha posto per loro, così lontani da non riuscire nemmeno a metterla a fuoco davvero.   Questo si riflette molto nelle vite sentimentali dei figli, nessuno dei quali ha una relazione equilibrata. Gli Usher, nelle loro relazioni, sono sempre in una posizione di comando: chi si fa gli assistenti, chi ordina al marito cosa fare della propria vita sessuale, chi tratta a pesci in faccia il fidanzato solo perché può. 
La domanda principale che si pone è che cosa dà valore alla nostra esistenza. Se è chiaro quale sia la risposta dei personaggi, e nello specifico di Madeline, la sorella di Roderick, è allo spettatore che si rivolge. Loro hanno avuto tutto, ma non hanno lasciato nulla. La legacy della persona che si è stati come si valuta? Quali sono gli elementi di te che resteranno nel mondo dopo che te ne sarai andato? E se non resta niente di buono, qual è il senso di stare qui? Una volta che tu avrai avuto una vita straordinaria, fatta di successi e lussi ma senza nessuno che dopo ti te ne faccia qualcosa, ha comunque avuto senso?
Gli Usher hanno le idee chiare, e subiscono le conseguenze di quello che ritengono essere il senso del loro posto nel mondo, ma tu, spettatore? 
Non intendo certo dire che fa della facile morale: è chiaro che i soldi non sono tutto e che la ricchezza vera risiede in altro, ma Flanagan non è così superficiale, e va oltre. Sei più rilevante tu, che hai cambiato il mondo, o la persona inferiore vicina a te, che ha fatto cose più piccole? Perché in realtà gli Usher, da un certo punto di vista, non escono sconfitti: sono tutti morti dopo vite vissute al massimo. 
Non è il senso della vita, quello che rimette in discussione, è quello della morte. L'andarsene che cosa significa? Che cosa comporta? Apre o chiude qualche possibilità? Valiamo di più per quello che facciamo quando ci siamo o quando ce ne andiamo?
Gli Usher hanno messo sulle proprie teste una sentenza, ma essendo pieni di potere hanno avuto il lusso di dimenticarsene, e quindi agire come se non si morisse mai. Roderick e Madeline, che portano sulle spalle il peso di milioni di morti causate dal loro farmaco, hanno il privilegio della memoria corta. Eppure la loro morte non porta giustizia, e in questa mancata catarsi sta la differenza con alcuni dei lavori precedenti: se in Hill House la famiglia Crain trova una chiusura e trova nella verità il modo per sopravvivere ad un grande dolore, gli Usher sono talmente lontani dal vivere comune che nemmeno ne hanno bisogno, tanto è vero che muoiono tutti facendo quello che li ha identificati in vita: qualcuno si droga, qualcuno annulla se stess3 (censura per non spoilerare), qualcun3 muore facendo il lavoro che l3 appassionava. Anche la piccola nota positiva che ci regala l'unica nella famiglia che non ha la rogna, non serve a bilanciare il male fatto da loro, perché non è investita nello stesso settore ma finisce su strade diverse, e forse è giusto così, proprio per mantenere quel tono privo di speranza.
Gli Usher di tutto il mondo non pagano per quello che fanno, non rimettono in discussione il valore della loro presenza sul pianeta ma anzi cercano in chi gli è inferiore elementi per continuare a legittimare le proprie nefandezze. Flanagan lo sa, e non li tutela mai. Li mette di fronte all'orrore delle loro esistenze lasciando che ad indignarsi sia solo lo spettatore ferito, toccato da un senso di giustizia che loro non avranno mai. 

È una serie più cattiva, che centellina l'immenso cuore del suo creatore perché quando si parla di stronzi non gli puoi dire stupidini, devi dimostrare tutti i modi in cui sono stronzi, tutti i modi in cui non potrebbero essere altro che stronzi, tutte le maniere in cui la vita ha insegnato loro solo ad essere stronzi. Lo grida con tanta intensità che alla fine, ovviamente, lo spettatore con un po' di sentimenti soffre per loro, vittime dello stesso sistema di cui hanno così a fondo goduto. Poiché comunque quel cuore lì lui ce l'ha, ci mette tante ore per farti vedere che tutto quell'amore lì negato, che la serie ha tenuto chiuso fuori, era la sola cosa che serviva a tutti, e che nessuno è stato in grado di elargirla, prima ancora che di trovarla.
Stupido Flanagan, mi fa piangere anche per i miliardari. 

lunedì 10 ottobre 2022

The Midnight Club

16:51
 Qualche giorno fa ho chiesto su Instagram se fosse meglio parlare della nuova serie di Mike Flanagan, arrivata il 7 ottobre su Netflix, per iscritto, qui sul blog, oppure in live il prossimo mercoledì, il 12 ottobre. Ha vinto la terza opzione, quella di discuterne in entrambe le sedi, quindi eccoci qui. Se vi interessasse partecipare anche alla live il link è qui di fianco, nel banner. 
Ho deciso che qui faremo una chiacchierata più emotiva, sulle sensazioni a caldo che la serie mi ha lasciato, mentre in live cercherò di arrivare più preparata per una chiacchierata più strutturata. Un altra differenza sarà nella presenza di spoiler: questo post non ne avrà, la live sì.

Questa distinzione fa sì che io in questa sede mi permetta di iniziare la chiacchierata con una piccola parte di fatti miei, che per forza di cose influenzano quelle sensazioni a caldo di cui sopra. 
Il cancro fa parte della mia vita da quasi due anni. È entrato nella mia famiglia con calma, quasi come se lo stessimo aspettando. È uno di quei tumori causati dalla vita, dagli errori di chi oggi se lo porta appresso, ed è quasi come se l'avessimo visto arrivare. Adesso è qua e pare non abbia intenzione di terminare il suo soggiorno a breve, il che per forza mi ha reso una spettatrice di The Midnight Club particolarmente provata. 
È stata una visione impegnativa, ma del resto Flanagan semplice non lo è mai.




La serie, tratta da un romanzo omonimo di Christopher Pike, racconta di un gruppo di ragazzi colpiti da diverse malattie, tutte allo stadio terminale. Per avere un fine vita il più confortevole possibile vivono in un hospice, dedicato agli adolescenti e gestito dalla dottoressa Stanton. Ogni notte, a mezzanotte, si svegliano e si radunano in una sala, con il vino - o la camomilla - e un camino acceso a scaldarli, per raccontarsi delle storie. Lo chiamano il Midnight Club.

Everybody likes a great story.


Già da quel poco scritto su, avrete riconosciuto il primo grande tema del Nostro: la morte. È dai tempi di Absentia che vediamo Flanagan parlare in modi diversi dell'assenza di chi amiamo. La morte è stata un elemento fondamentale di quello che ha fatto finora, ma in questo caso fa un cambiamento radicale: sposta il focus. Se finora abbiamo l'abbiamo visto parlare del fine vita dal punto di vista di chi sopravvive, adesso rivolta completamente la faccenda, per dare tutta l'attenzione a chi sta morendo. 
È molto più facile - da spettatori - confrontarsi con questa visione della morte, perché è quella che conosciamo. In un modo o nell'altro abbiamo incontrato questo aspetto dell'esistenza. Molti meno di noi, invece, sono stati messi di fronte al fatto che la propria vita stesse finendo. Se finora il suo parlare di morte ci ha aiutato a convivere con i nostri lutti, quelli della vita reale, questa volta ci ha messo di fronte a qualcosa che la maggior parte di noi, quella fortunata, non conosce se non per vie traverse.
Lo ha fatto spostando la morte un po' più in là, ma dichiarandola subito. Apre la serie dicendoci nei primi minuti che la protagonista non sopravviverà, e come lei nessuna delle persone che la circonderanno nel corso degli episodi. 
Sebbene la morte sia l'unico elemento comune di tutte le esistenze, tendiamo a mettere da parte il pensiero che ci sia perché possiamo permettercelo. È costante, ma distante. Ai protagonisti di Midnight Club questa distanza non è concessa, e immediatamente il pensiero che potrebbe avvenire da un momento all'altro cambia l'aria che si respira nella serie. L'atmosfera è cupa e pesante perché si respira la morte. È una cappa che sta sospesa sulle loro vite. È per via della morte che stanno tutti lì, è per via della morte che questa famiglia stupenda e scassata e affettuosa è nata. 
Quando la morte è un po' più vicina il pensiero non si cancella mai. Sta lì, come un avvoltoio che ti osserva da lontano mentre prosegui nella tua quotidianità. E loro, dell'avvoltoio che li guarda, non ne parlano quasi mai.
I ragazzi stanno insieme tutto il tempo che hanno a disposizione, perché ne hanno poco e se lo divorano tutto. Si presentano con i nomi delle loro malattie "Ciao, cancro alla tiroide.", "Ciao, leucemia." ma poi riprendono a parlare delle cose degli adolescenti normali: le ragazze, le relazioni, la playstation. Ma un momento di tregua, Flanagan, di reale alleggerimento, questa volta non ce lo concede mai. Se abbiamo avuto momenti, nelle serie precedenti, di distaccamento dal dolore, in questo caso non c'è pietà.
Nell'hospice ci sono tutto il giorno. Se escono per fare esperienze da giovani sani, queste saranno sporcate dal rapporto della società con la malattia. Se cercano relazioni, saranno influenzate dalla malattia. Se trovano una comunità che somiglia loro, non se la potranno godere, per via della malattia. Ci sono momenti di sollievo, di sorrisi (risate mai), di miglioramento, ma tutti sono insozzati dalle diagnosi. 
Nella mia esperienza, è davvero così. Stai bene, pensi ad altro, crei buoni ricordi. Alla sera, però, quando fai un bilancio di come sta andando, niente va mai bene davvero.
Non che io possa davvero identificarmi, perché qui Flanagan fa qualcosa di fondamentale: non solo sposta il focus ma elimina del tutto chi circonda i malati. Non è di loro che gli importa parlare. Questi giovani hanno delle famiglie, alcune molto belle e altre molto problematiche, ma non si parla quasi mai di loro in relazione alla malattia, o al fatto che i propri ragazzi stanno morendo. C'è una scena molto significativa in questo senso, quella della famiglia di Kevin per intederci con chi abbia visto la serie, che resta su questo tema, ma è quasi l'unica. Anche in quella, però, non è di Kevin come individuo che si parla, ma solo della sua eredità sul fratellino minore (perché sapete che MF ha pure una fissa per i fratelli). Lui non conta. Il padre affidatario di Ilonka non vuole affrontare il tema, per lui è troppo. I genitori di Cheri non si ricordano manco di avere una figlia. La madre di Spencer ha un problema con l'omosessualità del figlio, ma del fatto che lui stia morendo non ne parla. Anya è sola. 

I ragazzi, quindi, sono mollati a se stessi. Il supporto della dottoressa Stanton non è quello di cui hanno bisogno. Poiché stanno per mancare, è di raccontarsi che hanno bisogno, e lo fanno con le loro storie. Chiusi in una stanza, lontano dalla Vita Vera, quella che scorre di giorno senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, hanno bisogno di esplorarsi, perché sono proprio in quell'età in cui stanno diventando persone complete e indipendenti, e poiché non è previsto per loro un futuro pieno di tempo in cui conoscersi, lo fanno di notte. Danno nomi inventati a personaggi di cui hanno bisogno per darsi un volto e guardarsi da fuori, per descriversi agli altri cercando di mantenere la giusta distanza per "vedersi" meglio. In un momento in cui il loro corpo li sta tradendo, la loro mente ha ancora bisogno di costruire, elaborare. Alcuni di loro hanno un passato difficile con cui devono fare i conti, e lo lasciano sulle spalle dei loro personaggi, perché il loro carico sia meno pesante. Altri hanno bisogno di perdonarsi. Altri ancora non sono in grado di guardarsi con lucidità, e sono attanagliati dai sensi di colpa. 
Sono ragazzini pieni di vita interiore, pieni di cose da dirsi, con le gole riempiti delle parole che non avranno tempo di dire. E quindi giocano, esplorano, si spaventano e si consolano. Usano le storie come la più suprema delle cure palliative, anche se finisce sempre che piangono tutti quanti. Ogni tanto si fischiano se la storia non funziona.
Quello che sta accadendo loro è troppo, e quindi lo si affida a qualcun altro, ad un alter ego di finzione, che il cancro non ce l'ha per davvero. Aprono se stessi ai loro amici come spesso gli adulti non sono in grado di fare, concedono al piccolo pubblico i propri pensieri più intimi, mascherati da favola della buonanotte. Si fanno paura, si coccolano, si intrattengono.
Sperano.

Gli otto protagonisti sono in stadi differenti dell'accettazione della malattia. Sono persone diverse che, in quanto tali, affrontano quello che gli sta accadendo in modo diverso, eppure non si giudicano mai. Ilonka non ci può convivere, con questo pensiero, Anya nasconde un dolore grande quanto il mondo intero dietro ad un muro di ostilità e diti medi. Spencer ha un carico così impegnativo sulle spalle, che non deriva solo dalla malattia ma da tutta la sua storia, che il fatto di essere malato è quasi secondario. Cheri è sola, sola, sola. Circondata di oggetti, ma con così tanto gelo intorno da doversi costruire delle storie anche di giorno, per sopravvivere alla straziante solitudine di una ragazzina che sta male e non ha nessuno con cui piangere per la propria condizione. Kevin è l'adulto del gruppo: è sereno, convive pacificamente con quello che gli succede, sorride a tutti con un candore commovente e tutta la sua tranquillità cerca di donarla a chi lo circonda, perché è uno splendore di essere umano. Natsuki, invece, è clinicamente depressa, eppure è quella che parla dall'interfono alle amiche in isolamento, per non farle sentire sole. Sandra ha il suo Dio, la sua fede, ad aiutarla a gestire questo cammino.
Sono diversi, sono capitati insieme per caso o per destino se ci credete, eppure nessuno guarda agli altri con sdegno, invidia, giudizio, malizia. Sono così aperti a comprendersi, ad abbracciare l'uno il modo dell'altro di sopravvivere, giorno per giorno, all'esatto opposto di sopravvivenza. Quando ci sono screzi, perché sono pur sempre 8 adolescenti chiusi a vivere insieme nella stessa casa, sono presto risolti. Si vogliono troppo bene perché qualcosa li allontani davvero.
Quando qualcuno inizia a mancare, e non è spoiler perché è pur sempre un hospice, non si lasciano andare a gesti estremi nel manifestare il proprio dolore - cosa che comunque non avrebbero giudicato - ma cercano l'uno nell'altro il supporto necessario per continuare a vivere, un altro po'.

Flanagan ha così a cuore questi ragazzi e le loro tristi storie, che ce le racconta con la stessa cura che hanno loro nel raccontare se stessi. Non c'è niente di sorprendente, in questo: che fosse un narratore di sorprendente eleganza lo sapevamo già. Che fosse in grado di toccare l'anima di chi assiste alle sue opere lo avevamo già sperimentato. In questo caso abbatte ogni muro. Non solo non c'è niente di male a piangere, ma bisogna farlo. Bisogna soffrire e buttarle fuori, quelle cose brutte che abitano nella mente e nel cuore quando stiamo male, perché non c'è niente di valoroso nel soffrire in silenzio. Chi ha il cancro (come anche tutte le altre malattie di cui la serie parla) non è un guerriero. Non serve, come lo fa chiamare dalla Stanton, il linguaggio da guerra. Non c'è valore nel tenersi dentro la sofferenza, non c'è debolezza nel dire, a chi lo si desidera, che si sta male. 
La vita non può e non deve essere una battaglia, e non deve esserlo nemmeno la morte.

Ogni volta di più Flanagan mi insegna come devo fare, per deporre le armi. Ho parlato a lungo della malattia di mio papà con una persona della mia vita che a sua volta l'ha conosciuta da vicino, e che si è sempre spesa in parole splendide nei miei confronti, complimentandosi per la mia forza. 
Mike, però, lo sa bene che non sono forte per niente. Che Anya è più forte quando si lascia andare, Ilonka quando accetta, Kevin quando lascia andare il senso di colpa, Cherie quando esce dalla stanza.
Io, che da tanti anni tengo il fucile sempre sottobraccio, ci devo lavorare ancora un po'.

lunedì 27 settembre 2021

Midnight Mass

16:59

 Avevo scritto su Instagram (il link per seguirmi se vi va è qui di fianco!) che mi sarei presa qualche giorno per scrivere della nuova serie di Mike Flanagan sul blog. Il punto è che l'ho finita ieri sera, e stamattina mentre passavo sulla cassa del supermercato i prodotti ignorando chiunque li avesse comprati non ho saputo pensare ad altro. Nemmeno mentre guidavo stamattina prima dell'alba con gli occhi ancora incrostati di sonno, e nemmeno al ritorno, mentre mi mangiavo un tramezzino in auto. 

Voglio parlarne subito, e sapevo sarebbe stato così, inutile fingermi la persona rilassata che non sono.





La vicenda è ambientata nella piccola Crockett Island, abitanti 127. Riley vi fa ritorno dopo un periodo passato in carcere e lì ritrova la sua famiglia e la sua ex fidanzatina del liceo, Erin, ormai donna adulta e in visibile stato di gravidanza. La piccola comunità è toccata da un evento: lo storico sacerdote Monsignor Pruitt si è malato durante un viaggio spirituale e al suo posto la curia ha mandato il giovane padre Paul, carismatico, capace di prediche che rendono le sue messe esperienze nuove. Nel corso della storia faremo la conoscenza di vari abitanti dell'isola: Beverly, la perpetua, Leeza, la giovane con una disabilità motoria causata da un brutto "incidente", lo sceriffo Hassan, unico membro musulmano della comunità, Joe, l'ubriacone del villaggio, Sarah, il medico, e le loro famiglie. È una serie corale come se ne sono viste poche, perché nessuno è secondario. Ogni personaggio è guardato con sguardo così approfondito che in due episodi li sentiamo vicini come se li conoscessimo da sempre.


Quando crei qualcosa come The Haunting e poi decidi di interromperla perché hai altri progetti, la gente come me non la prende benissimo. Ripongo in Mike Flanagan la fiducia più cieca, però The Haunting of Hill House è diventata così importante per me che non ero pronta a lasciarla andare per avere qualcosa di nuovo. Bly Manor era già un modo per allontanarsene, ma manteneva lo stesso calore, la stessa impostazione. Arrivando con queste premesse alla visione di Midnight Mass sono rimasta per forza di cose quasi delusa dai primi due episodi. Il calore, la familiarità, l'immediatezza di Hill House qui non c'erano. Prometto che il post non sarà un confronto tra le due, portate pazienza con me, sto ancora riordinando i pensieri. 

Laddove mi era stato sufficiente vedere i Crane per 5 minuti per cadere inesorabilmente innamorata di tutti quanti, qua la costruzione è più lenta. In una serie che dura solo (S O L O) sette episodi, prendersene due belli pieni per introdurci e farci sentire a casa sull'isoletta sono un bel lusso che il regista si è preso. A visione terminata non posso dire che siano pesati nell'economia della storia, perché da un certo punto in poi il coinvolgimento emotivo tramortisce quasi e il fluire della vicenda non arranca mai. Ovviamente, e come sempre, aveva ragione Flanagan. Servivano due episodi così, misurati e composti, perché poi Midnight Mass diventa impegnativa, e quando lui decide di metterci il carico da mille lo fa senza paura di far male a chi vi assiste.


Spero non passi il messaggio che la serie è impegnativa nel senso di respingente, noiosa, pesante. Non è così. Ha del miracoloso, per restare in tema, il modo in cui F. sia in grado di costruire qualcosa di così difficile in un universo narrativo nel quale riesce ad inserirci immediatamente come membri attivi, e di conseguenza molto partecipi di quello a cui assistiamo. Non siamo solo fruitori del mondo che ha creato, ne siamo completamente immersi. Non fare una binge di Midnight Mass è pure meglio: si sentono gli odori del mare, del pesce appena pescato e dell'incenso anche quando la tv è spenta. Segue lo spettatore per tutta la sua durata, perché è tanto immersiva l'esperienza che non ci si stacca dalla Crock Pot solo perché è finito un episodio. 

E lo è così tanto, in maniera così prepotente rispetto a tutte le altre serie tv mai scritte, perché nessuno parla delle persone come lo sa fare Mike Flanagan. Questa non è una serie sugli eventi, che pure ci sono e sono parecchio intriganti (e messi in scena come Cristo comanda, per restare in tema, è la serie della maturità di F e si vede), è una serie sulle persone. Su come gli eventi toccano le persone, su come una piccola comunità si muove, respira, vive. Su come crescere lontani dal resto del mondo renda tutti uniti attraverso un filo invisibile. Riley e Erin non si vedono da anni, perché hanno entrambi per un po' lasciato l'isola. Quando si ritrovano, è tutto come prima. Romanticamente potrebbe essere anche solo perché si sono sempre amati, oppure il fatto che nessuno, a parte loro stessi, può comprendere cosa significhi lasciare un posto come quello, che diventa parte della tua identità, e poi tornarvi, diversi ma sempre uguali.


Facciamo una parentesina di cavoli miei come al solito? Ma facciamola.

Io sono atea da tanti anni, ma ho frequentato l'ambiente della parrocchia del mio paese a lungo. Non l'ho solo frequentato, sono stata un membro attivo della parrocchia, ho fatto catechismo anche DOPO la Cresima, ho mangiato pizze a casa di preti, ho cantato in cori e pulito teatri luridi dopo spettacoli del Grest. La cultura cattolica fa parte del mio vissuto, con l'aggravante che oggi è una delle cose che mi spaventa di più al mondo. L'estetica cristiana è spaventosa, la Bibbia presa alla lettera un macabro libro dell'orrore, le croci mi inquietano, la fede mi allarma. Però una cosa è vera, e va riconosciuta: per chi ce l'ha davvero, la fede è una lente sul mondo che può dare consolazione vera, e io per quella cosa qua provo sincera invidia. Midnight Mass fa il più importante racconto della fede che ho mai visto in tv, quello più sincero. 

Tutti i personaggi hanno un rapporto con la Chiesa: chi, come Riley, ha un rapporto finito; chi come Erin, ha una relazione che sta ricominciando; chi, come Bev, ne ha fatto il solo senso della vita o chi, come Hassan, è riuscito a mantenere un rapporto sano con la propria spiritualità. La Chiesa, nella persona di Monsignor Pruitt prima e di padre Paul poi, è il centro di ogni dinamica relazionale, è la routine, è Casa. In mezzo alle situazione disperate che tutti si trovano ad affrontare, economiche, psicologiche, di salute fisica, la piccola chiesetta di Saint Patrick sta lì, ad accogliere. A dare speranza. A ricordarci che se ci comportiamo bene ci aspetterà la felicità eterna, che non dobbiamo avere paura di nulla perché le nostre spalle sono sempre coperte da un essere superiore e che ci ama e ci protegge sempre, e che se anche la paura ce l'abbiamo dobbiamo abbracciarla, accoglierla, perché ci sono date solo difficoltà che siamo in grado di affrontare e che pertanto ne usciremo sempre vincitori. Erin aveva bisogno di questo, quando è tornata, di calore e senso di appartenenza. Per un periodo, poi, quando perde che le aveva dato calore da dentro di sè, smette di frequentarla. Bev, donna atroce e spaventosa, è ritratta in realtà come una persona profondamente sola, che ha cercato nella Chiesa e in Dio i soli compagni di una vita disperata che lei maschera come perfettamente realizzata. Si sente eletta, benedetta, illuminata da una luce divina che la rende migliore degli altri, quando in realtà è una miserabile, una donna che non ha saputo costruire nulla per se stessa e che nel ruolo che si è costruita e imposta ci si è infilata dentro, al sicuro da tutto il resto del mondo. Si è ritagliata uno spazio in cui sentirsi sicura, migliore, per legittimare se stessa nel suo sentirsi superiore a chiunque altro.

Non è un caso che loro due siano tra le poche che la Chiesa continuavano a frequentarla anche nei momenti di minor affluenza. Loro e Leeza, ma di lei parliamo poi. Il resto della popolazione torna a sedere tra i banchi di S.Patrick quando avviene un miracolo. Neppure questo stupisce: se la Chiesa può questo, allora tutti sentono di avere diritto a qualcosa di buono. Il luogo sacro ritorna luogo di speranza, di preghiera. Perché siamo tutti così, ci sentiamo tutti legittimati a chiedere qualcosa in cambio delle belle persone che siamo. Flanagan lo sa, ma non ci giudica. Ci mette in mostra, ci racconta, ma sempre senza uno sguardo giudicante. Perché lo sa che siamo stati tutti imbrogliati da secoli di propaganda cattolica, in cui il bene esisteva solo in quanto frutto di ricompensa certa, in cui ci veniva fatto credere di essere Amati da Lui, e che questo ci rendesse speciali e, quindi, intoccabili. Non è un caso neppure che uno dei personaggi, nel tentativo di ferire Bev, le dica che Dio ama lei tanto quanto ama gli ubriaconi e gli assassini. Perché tanta e tale è stata l'influenza dell'uomo in quello che stava nelle Scritture che pure il più basilare concetto cristiano, l'uguaglianza tra le persone, l'amore verso il prossimo, è oggi una lontana utopia, e Bev questo aspetto lo incarna alla perfezione. È crudele verso gli uomini e gli animali (non mi stancherò mai di gridare il tw per quanto riguarda la violenza sugli animali, occhio che fa malissimo), è razzista, misogina, invadente, snervante. Riesce ad essere al tempo stesso un perfetto riassunto di tutto quello che la Chiesa non vuole e anche quello che la Chiesa, in effetti, è. E la si detesta, sia chiaro, la stronza mangia particole (cit. la mia amica Silvia). La si detesta perché siamo umani funzionanti ed empatici, ma Flanagan riesce comunque a regalarle quella patina di atroce solitudine, di tristezza, di dolore, che riescono ad emergere anche nella seconda metà della serie, in cui si palesa in modo ancora più prepotente come la persona squilibrata che è. E soprattutto nel suo infelice finale, dove si vede quanto niente con lei funzioni, quanto niente ormai potrebbe cambiarla più, neppure il peggiore degli scenari possibili. Lei, da tutto quello che accade, non ha imparato niente. Vuota era, e vuota è rimasta, riempita solo dell'aria gonfia che è la religione.

Alla fine di tutto la serie parla di disperazione. Ogni personaggio ha sensi di colpa, dolori passati e presenti, vuoti, fragilità. E tutti si riversano lì, nel luogo in cui avvengono i miracoli, perché se c'è spazio di redenzione per gli altri allora ci deve essere anche per me. Riley ha pagato il suo conto con la società ma è ben lontano dal saldare quello verso se stesso, ed in mano all'interpretazione di Zach Gilford (che amo da quando era Matt di Friday Night Lights) ci regala un personaggio con gli occhi spenti, incupiti da quello che ha fatto e da quello che gli capita nella serie. Con lui, una Kate Siegel che ha finalmente il ruolo da protagonista che merita. Qui è una Erin eccezionale: intensa, con gli occhi giganti spalancati prima di tutto dentro se stessa, perché capace di analisi e conoscenza di sè invidiabili. I due si parlano, discutono di massimi sistemi sul divano di casa, scardinando le proprie certezze sulla vita e il suo senso, sulla morte e il suo significato. Ci sarebbero trattati interi da scrivere, sui dialoghi e sui monologhi di questa serie magistrale. Perché è una serie in cui si parla tantissimo, in cui non si fa altro che discutere delle cose. Si parla, si litiga, si chiarisce, si predica, in cui prova a parlare anche chi non è abituato a farlo, come il padre di Riley. Parla Leeza, quando si sente nella posizione migliore per farlo, nella scena più atroce della serie, il confronto con l'uomo che l'ha resa paralizzata dalla vita in giù, Joe Collie. Lei parla, parla, parla, vomita addosso all'uomo tutto l'odio e il rancore che non era riuscita a elaborare prima, in una capacità di autoanalisi sconvolgente, lasciando il pover'uomo in condizioni pietose. Ho provato così tanto dolore, per Joe Collie, in questa serie, che ho dovuto interrompere un paio di volte la visione, per andare a prendere una boccata d'aria fresca e ricordarmi che era solo finzione. Il ruolo è interpretato da Robert Longstreet, e meritava una menzione perché mi ha cavato il cuore. Un uomo incapace di mettere in parole i suoi pensieri, che può solo piangere disperatamente mentre una ragazzina gli vomita addosso tutto l'odio di cui è capace, che soffre ancora di più quando viene perdonato. Un uomo senza gli strumenti emotivi per perdonarsi da solo, incapace di fare altro se non scusarsi ripetutamente, soffocato, inascoltato. Un uomo che inizia a parlare solo quando trova un altro disperato come se stesso, un altro annientato dalle proprie scelte, un altro che deve convivere con le conseguenze delle proprie decisioni. Personaggi come Joe Collie parlano alla mia storia personale e non posso prescindere da questa consapevolezza quando mi rendo conto che sono quelli per cui soffro di più. F., però, li ritrae in maniera così complessa, così autentica, che è impossibile non trovare qualcosa di sé e del proprio trascorso in uomini come lui, con i quali il mondo ha fallito, verso i quali la società è colpevole. 


Midnight Mass finisce nell'unico modo possibile, e non era scontato. Poteva avere un finale più tradizionale, poteva riavvicinarsi a certi aspetti dell'horror più canonico, poteva farci sognare con una dolce storia d'amore, poteva dare redenzione. Sceglie di non farlo, di toglierci le certezze da sotto i piedi, di privarci del sollievo. Sceglie di parlare di sacrificio, che non è più nel senso cattolico ma solo genuino amore per chi si intende salvare, parla di chi sceglie di restare insieme fino alla fine, in un ultimo momento di comunione spirituale. Nel mezzo, tra quell'inizio modesto e il suo finale in fiamme, la serie riesce a fare uno straordinario ritratto dell'umanità, delle sue fragilità, dei suoi meccanismi di protezione. Parla di adolescenti in modo affettuoso, di scienza e religione, di appartenenza, di perdita, di razzismo, parla di relazioni lunghe anni fatte di piccoli momenti di candore, parla di convivere con quello che si è, di quanto accettare quello che la vita ci pone di fronte sia un concetto sopravvalutato, di quanto siamo sempre parte di qualcosa di più grande.

Se dare a questa frase un significato religioso, o cosmico, o pessimista, sta a noi. 

sabato 17 ottobre 2020

The haunting of Bly Manor

11:54

Non starò qui ad ammorbare chi legge con l'ennesima intro su quanto Mike Flanagan sia uno dei registi che amo di più al mondo e su quanto The haunting of Hill House sia per me la cosa migliore più grande mai accaduta al mondo delle serie tv. Per questo c'è un post specifico che trovate qui.

La sola cosa che è importante dire è che, nonostante le mie paure siano sempre state ampiamente smentite dal regista di cui sopra, mi sono approcciata alla visione della seconda stagione della serie migliore della storia con una bella fetta di timore. Era The haunting ma non era la mia storia, non erano i Crane, non era Hill House. Non so come avrei reagito se non mi fosse piaciuta.

Facciamo quindi una recensione breve: sebbene Hill House mantenga nel mio cuore un posto tutto suo dovuto forse al suo essere la prima (o forse al suo essere perfetta, chi lo sa), Bly Manor è stata l'ennesima conferma che io questi timori non li devo avere mai più, perché il cuore e la testa di Flanagan continuano a parlare ai miei e anche questa volta ha fatto la magia.




Per la recensione intera mi sa che ci sarà da mettersi comodi. Farò il possibile perché sia senza spoiler.

Piccolo accenno di trama per chi non sapesse di cosa di parla: la serie è tratta da Il giro di vite, di Henry James, e racconta dell'arrivo di Dani a Bly Manor come ragazza alla pari. Dovrà occuparsi di Flora e Miles, due bambini rimasti recentemente orfani. Con lei nella casa ci saranno il resto dello staff e qualche fantasma.

Ho provato diverse volte a scrivere questo post, perché ci penso da ieri sera, quando ho visto l'ultimo episodio. Eppure le parole che mi vengono in mente quando parlo di Flanagan e dei suoi lavori - anche se in questa stagione il suo ruolo è "solo" di showrunner, perché di episodi ha diretto solo il primo - sono sempre le solite: delicatezza, poesia, intimità, profondità. Alla lunga scrivere sempre le stesse cose diventa ridondante, persino per me che mi ripeto in continuazione. 

Però sto provando a mettere a fuoco cosa di lui io ami così profondamente, per imparare ad argomentare meglio quando scrivo i miei post, ed è difficile. Perché Bly Manor, tanto quanto Hill House prima di lei, non tocca la mia parte razionale. Si tratta di una serie con un'estetica che incontra il mio gusto (costumi, luci, ambienti, messa in scena, per i miei occhi è stata estasi costante), con una scrittura superba che ho ammirato scena dopo scena, con una bella regia coerente con quella del suo showrunner, con grandi interpreti. E queste cose sono certamente fondamentali per il giudizio di un prodotto del suo tipo. Flanagan ricerca sempre una raffinatezza nel comparto tecnico che anche qui si è fatta notare. Però il punto per me non è quello, e da quando ieri sera ho spento la tv rifletto su come mettere nero su bianco il modo preciso in cui mi colpisce così forte.

Il punto è sempre stato il cuore. In un momento in cui escono mille serie al giorno e si punta sempre al prossimo grande successo che farà vendere mille magliette e creerà milioni di cosplay tutti uguali al Lucca Comics (nessun riferimento a case di carta è intenzionale), Flanagan rallenta i ritmi. Non ricerca la frenesia dell'azione, l'iconicità e la riconoscibilità del suo prodotto. Lui ha storie di persone da raccontare e sa che per fare questo serve altro. Si prende il lusso della lentezza, pur essendo in grado di non creare mai storie noiose, perché, come dicevo su, sa scrivere come nessun altro. Usare la lentezza è quello che serve per creare la quotidianità. Ed è quando ricrei una quotidianità reale, con cui si empatizza così tanto, che ci sbatti con violenza dentro il cuore e la testa dei personaggi che stai portando in scena. L'amore reale che si porta a casa per queste persone non nasce nel momento in cui rischiano la vita l'una per l'altra, o quando affrontano fantasmi spaventosi. è un sentimento che si sviluppa quando assaggiano tutti le creme che Owen ha fatto e decidono quale sia più buona, è quando si prendono una pausa dal lavoro e si fermano a bersi un gin tonic e a fare del sano gossip. Li ami un po' di più quando si danno il primo bacio e non va tutto come nelle favole, quando sono spaventati, quando litigano. Quando si scambiano parole quotidiane, quando sono persone normali, con amori che fanno male, con gelosie, con piccole discussioni della vita di tutti i giorni. E per raccontare questo serve tempo. Servono 9 episodi da un'ora l'uno (e sa solo dio se ne vorrei di più) per far sì che alcune persone passino da sconosciuti a colleghi, ad amici, a famiglia. Serve morbidezza nel racconto perché alcune persone capitate lì per caso diventino l'anima intera della casa che amano. L'amore che inevitabilmente si prova per i bambini diventa collante e infine l'amore permea la casa, ed è così forte l'unione che ne nasce che l'ultimo, meraviglioso episodio ce lo conferma. Non si esce mai da quei legami qui, quelli nati con le piccole cose, con la vita condivisa. 

E noi, che lo vediamo sullo schermo, siamo con loro, con il cuore e con la testa. Siamo insieme al meraviglioso Owen quando soffre e ammette cose difficili e beve perché tanto cosa altro può fare? Siamo con Hannah che deve convivere ogni giorno con una vita nuova perché la sua le è stata stravolta. Siamo con lo zio Henry, quando con una sola battuta è stato in grado di ribaltare la sua immagine e spezzarci il cuore. E siamo con i bambini, che sono piccini e pieni di problemi, ma che sono più grandi di tutti, perché hanno segreti e li tacciono solo per il bene di quei grandi che dovrebbero nasconderli a loro, i segreti.

Il male, a Bly Manor, ha la forma del trauma, del dolore che ha fatto fermentare il germe cattivo. Non ci sono cattivi e basta, ci sono persone rotte dentro che non sanno come fare ad essere altro che così. Non ci sono nemici, non ci sono vincitori. Quello a cui assistiamo è il frammento di alcune esistenze e, sebbene da un punto di vista strettamente tecnico i tempi siano perfetti così, è ogni volta un dolore non poterli accompagnare oltre. Vedere Flora diventare grande, vedere Owen guarire dal suo mal di cuore, vedere Jaime felice, vedere la vita di tutti andare avanti. Mi pare evidente che la serie la ricomincio subito, ma mi fermerò sempre lì, e sarà sempre una sofferenza.


Il modo in cui Flanagan ha rivestito di un amore così profondo l'orrore mi lascia ogni volta senza parole. Tra gli appassionati si sa che l'orrore è cosa ben più ampia dei cinemacci di sangue e squartamenti che gli vengono spesso affibiati come unica caratteristica, ma Flanagan lo sta facendo su Netflix. Non in un cinemello di nicchia, ma sulla più grande piattaforma di streaming del momento lui sta  mostrando a tutti che quella poesia qua è possibile. Ci sta dicendo che il modo migliore per parlare di sentimenti è quello sincero, non artefatto, non costruito a pennello per ricalcare un nostro immaginario. Usa un linguaggio così vicino a noi che i nostri sentimenti si fondono sempre alla perfezione con quello che vediamo sullo schermo. Mi dispiace non essere in grado di evitare i consueti aggettivi che gli riservo, quindi li metto tutti alla fine e tutti insieme, per sfogarmi di averli trattenuti finora: Bly Manor è l'ennesima storia di Flanagan che mescola l'orrore con la poesia, fondendoli con la maestria di chi questo cuore ce l'ha sinceramente e non costruito solo per fare un buon prodotto. In questo caso c'è anche l'aggiunta di un magnifico racconto d'amore, e se aveste qualche dubbio ve lo sciolgo subito: è dolcissimo nel modo potente e mai mai mai mai mai stucchevole in cui solo lui poteva esserlo. Emozionante sempre, dolce, elegantissimo, magnetico.

Anche questa volta, Mike Flanagan è stato il più bravo di tutti. 

The rest is confetti.

mercoledì 14 ottobre 2020

Redrumia30: settimana due e comunicazione di servizio

17:20

 La possibilità che io potessi eguagliare in grandi successi la settimana uno era già bassa in partenza. Se non sapete di cosa sto parlando, questo è il post da leggere. In più, la scorsa settimana è stata costellata da impegni causa compleanno - tra i quali spicca la più fallimentare delle torte fritte che la vostra abbia mai cucinato - e soprattutto dall'uscita della seconda stagione della Serie Migliore Di Sempre.

Ma andiamo con ordine.




Il primo giorno mi sono guardata Freddy vs Jason, che, devo ammetterlo battendomi il petto tre volte, non avevo mai visto. Per chi come me fosse in ritardo rispetto al resto del mondo c'è Netflix, che in mezzo ad un catalogo horror nel complesso dimenticabilissimo, nasconde cose come questa. Il mio insindacabile giudizio sul film è che se non vi piace non si può essere amici. In una settimana di cosine mediocrissime e noiose fino al sanguinamento oculare, un film in cui i due migliori amici del cinefilo dell'orrore si prendono a botte fortissime non può che essere una festa. Protagonista indiscusso è Freddy, il solito sarcastico grilletto che salta e urla e ammazza per tutto il film, il bene che gli si vuole è incontenibile. Jason è il mercenario muto, la controparte "pacata" e silenziosa, lenta e atroce. Non si potevano che mettere uno contro l'altro e il risultato è un film in cui quello che succede è assolutamente irrilevante, vogliamo solo vedere i due amati ammazzarsi di botte e infatti quello ci viene dato. E noi di questo rendiamo grazie.




Sulla scia di Host, guardato e amato la scorsa settimana, ho dato una possibilità anche a Bedeviled. Stava lì su Prime, in attesa di essere guardato. Ecco, col senno di poi poteva aspettare ancora un po'. Io lo dico ogni volta che posso perché non sia mai che mi si prenda sul serio: a me piacciono sì i film autoriali belli seri polpettoni infiniti ma impazzisco anche per i cinemelli scemini con gli adolescenti che sbagliano tutto e muoiono in modi creativi. Questo film poteva regalarmi una piacevole oretta e invece è troppo vuoto, persino per me. Non ci prova nemmeno, ad essere qualcosa di diverso: è un brutto film fatto per cavalcare l'onda dell'horror tecnologico ma che non ha nulla da aggiungere e purtroppo, è fatto per essere dimenticato non appena la visione finisce. Peccato.




Qui ho fatto un errore da principiante, lo ammetto. Widow's walk mi scrutava da Prime da un po'. Aveva questa locandina bella pastello, un bel titolo, aveva la campagna inglese, i fantasmi, una storia di lutto...poteva avere il mio cuore. Non lo ha avuto. 

Quella che avrebbe potuto essere una magnifica, lenta e dolcissima storia di elaborazione del lutto ha il difetto principale di essere vuota. Avrebbe potuto essere un corto, in una ventina di minuti si sarebbe costruito quello che la regista ha tentato di fare qui allungando la minestra con tante, tantissime scene che ambiscono ad un'eleganza e ad una ricercatezza che purtroppo non raggiungono mai. Ci prova, con questa musica, questi colori, questa lentezza che ha, ad essere il film che vorrebbe tantissimo essere, ma per mia opinione fallisce completamente rivelandosi noioso, vuoto e allungato. 

Peccato, parte 2.


E infine, ovviamente, ho iniziato The haunting of Bly Manor.

Ci sarà per ragioni ben più che ovvie un post interamente a lei dedicato, ma per ora, che sono solo all'episodio 5, posso dire qualcosina.

Mike Amore Mio Flanagan non dirige più ogni singolo episodio, ma quella serie qua è roba sua e si vede sempre, perché quando si impara a conoscere il calore che emanano le sue produzioni poi lo si identifica in un attimo, e Bly Manor ne è piena tanto quanto Hill House. Mi spaventa il confronto perché la prima stagione aveva il vantaggio della sorpresa: è stata la prima volta nella mia vita in cui ho così brutalmente empatizzato con qualcosa che guardavo nello schermo ed è stata la prima volta in cui le emozioni hanno toccato picchi mai esplorati prima con un prodotto di finzione. Hill House è per me arrivata là dove nessuno era mai arrivato prima e adesso pensare che sto guardando qualcosa che le è legato ma non è lei mi turba quasi un po'.

La verità è che per ora Bly Manor è altrettanto bella. Quello che tocca, nelle storie di Flanagan, sono le relazioni tra le persone, e in questa è pieno di momenti di vita quotidiana di persone inizialmente sconosciute ma che stanno imparando ad essere l'uno la casa dell'altro. Ci sono sguardi, pasti assaggiati, inside jokes che vedi nascere e quindi inevitabilmente diventano anche tuoi, come lo schifoso tè di Dani. Ci sono i fantasmi che ciascuno porta con sé, e c'è il carico del proprio passato che pesa sul proprio presente. E ci sono due bambini strabilianti. Amo moltissimo che Flora e Miles non siano i bambini di Hill House perché la mia Nellie e il mio Luke non potevano essere altro che loro, così come i due fratelli di Bly si stanno ritagliando un posticino tutto loro nel mio cuore. Quella Flora lì e la sua vocina e le sue frasi meravigliose avrei voluto metterla al mondo io, è un incanto di creatura preziosissima e se qualcosa di male le accade entro la fine della serie non rispondo della mia reazione.

Pensavo mi stesse facendo meno paura di Hill House, che alla prima visione mi aveva messa in difficoltà, ma era solo perché non avevo ancora visto l'episodio 5.

Ne riparleremo prestissimo. 


Vorrei dire che è stata una settimana mediocre dal punto di vista delle visioni ma quando guardi qualcosa che esce dalle mani e dalla testa di Mike Flanagan tutto il resto va fuori fuoco. Settimana spettacolare.



Comunicazione di servizio

Venerdì ho festeggiato il compleanno con gli amici, e mi è stato fatto un regalo di compleanno che mi ha tolto il fiato. Mi hanno preso diverse copie dei miei libri in cartaceo, così che io potessi regalarli a oratori, biblioteche, associazioni giovanili, maestre, scuole, educatrici, baby sitter, tate...

Questo porta a due cose, e la prima è chiedervi l'ovvio: se conoscete o fate parte di una delle categorie di cui sopra e avete piacere a ricevere una o più copie dei miei libretti, scrivetemi. Ve li manderò con tutto il cuore e sapere che qualche bimbo sconosciuto leggerà le mie storie mi riempirà il cuore di gioia. Spargete la voce, se ritenete me lo meriti, o fatemi nomi di realtà che potrebbero essere interessate, perché ho libri da spedire e nessuna paura di farlo!




lunedì 30 marzo 2020

Horrornomicon: The Haunting of Mike Flanagan

18:22
Il mondo dell'orrore è talmente immenso che ogni 6 mesi mi fermo e decido gli Horrornomicon per il semestre successivo. Questo mese il mio piano prevedeva che noi si parlasse dei film demoniaci, la mia Paura Numero Due.
Poi, il coronavirus. Non solo una pandemia mondiale che ci costringe tutti a casa, ma una pandemia mondiale che ha toccato, tra tantissime, anche la mia famiglia. Le conseguenze sono due: la prima è che la routine rotta ha fatto sì che non stessi riuscendo a preparare il post originario nel modo in cui avrei voluto e la seconda è che non sono nel momento adatto ad affrontare la mia Paura Numero Due. Sono impegnata a combattere la Numero Uno, perdere chi amo, il demonio può aspettare.
E quindi un post su una cosa bella bella in modo assurdo: i film di Mike Flanagan.
Perché nel 2020 dire che l'horror sta benissimo è quasi un eufemismo. In un'epoca nella quale siamo privilegiati a sufficienza da veder nascere le opere di diversi futuri maestri del genere, il lavoro di Flanagan è quello che da subito mi ha colpito al cuore, e come medicina per l'anima in questo periodo, me lo sono riguardato quasi tutto.


Il nostro Mike, che chiamo per nome perché lo amo come fosse amico mio, il cinema ha iniziato a farlo da studente, ma quello che è successo in quel periodo al momento non ci interessa perché non è orrore. Al genere si avvicina nel 2011 con Absentia, un film nato con il crowdfunding. Parla di due sorelle che si rivedono dopo anni di lontananza. Una delle due ha subito anni prima la tragica sparizione del marito, e sta ultimando la rognosa parte burocratica proprio quando la sorella la va a trovare. Poi il marito ricompare, e sono un pochino cazzi per tutti. Girato con poco e niente ma tanta voglia di fare, il primo horror di MF pone già le basi per quella che sarà tutta la sua poetica: la famiglia, il lutto, il trauma, la fragilità. Sono i suoi temi portanti e già da questo film, che è giovanile e si vede, se ne percepisce l'intensità. Ora, è chiaro che Absentia non possa essere paragonato a tutto quello che è venuto dopo, ma la parabola di Flanagan mostra benissimo come quelli di cui parla sempre siano per lui temi forti e fondamentali, che si porta dietro da sempre. Soffre un po' di una prima parte noiosina e della povertà dei mezzi (ma chi può rimproverarlo per questo?), però è un modo interessante e piacevole di iniziare a conoscere Mike e le sue ossessioni.

Due anni dopo arriva Oculus, che è il film con il quale la sottoscritta, come presumo il mondo intero, ha fatto la conoscenza di quello che sarebbe diventato uno dei suoi grandi amori. Il film sembra uno di quei bei lavori che commercialmente vanno un casino, uno di quegli horror semplici ma efficaci che piacciono agli adolescenti (e a me). E lo è, ma poteva mai essere solo quello? No, infatti. Oculus è il racconto di due fratelli che hanno subito enormi traumi da bambini e che, da adulti, hanno un grosso conto in sospeso da chiudere.
Quindi sì, parla di uno specchio maledetto, e lo fa con tutto ciò che ci aspettiamo da casi del genere: passato misterioso, storie che potrebbero essere casualità o forse no, un po' di violenza ben dosata (ma efficacissima, un gran saluto dalla scena della lampadina), tre attori giovani e belli e una spolveratina di inquietudine. Bastava così, e sarebbe comunque stato un film molto carino. Flanagan ci ha aggiunto un gusto estetico che si stava raffinando, un budget che finalmente si stava avvicinando alla montagna di denaro che gli darei, e una profondità che, pur non raggiungendo i picchi dei suoi capolavori, alza la levetta e trasforma un film carino e poco impegnativo in un bel film che parlando di uno specchio cattivo parla di dolore ed elaborazione del lutto.

Il lavoro successivo del Nostro è la tragedia Somnia.
Dobbiamo davvero parlare tutti quanti di più di Somnia.
Uno dei più bei film del nostro protagonista ha avuto una storia di distribuzione che più infelice di così c'è solo la storia che racconta. La sua casa di distribuzione è fallita prima di riuscire a dargli spazio in sala, ma in tempo per fare un danno: rilasciare materiale promozionale del tutto sbagliato per il film, che quindi è stato preso malissimo. E questo è un torto imperdonabile, perché è uno dei film più commoventi e delicati io abbia mai visto.  Jessie e Mark hanno subito il più atroce dei lutti: il loro bambino è morto in un incidente domestico. Anni dopo decidono di aprirsi all'affido, e portano a casa con loro il piccolo Cody, inconsapevoli del fatto che ogni sogno fatto dal bambino nel sonno diventi realtà.
Parlare di genitori che perdono i loro bambini è difficilissimo, io non saprei manco da che parte iniziare. C'è il rischio di fare un prodotto lacrimevole e sempliciotto. Ma mica Flanagan, nossignori. Lui fa una favola nera dalle immagini indimenticabili (la prima scena con le farfalle mi commuove solo ripensandoci), ma le dà il giusto equilibrio rendendo molto umani, e quindi sbagliati, questi genitori. Jessie e Mark sono dolcissimi e accoglienti con Cody, ma sono rotti dentro, e questa disperazione non solo non viene curata dall'arrivo del nuovo bambino (giustamente, mica è un cerotto), ma li porta a compiere azioni deprecabili. Senza giudicarli, senza che questo li renda cattivi, solo più veri.
E poi Cody è Jacob Tremblay, e a F piacciono tanto i bambini con i faccini adorabili, questo sì che è un po' vincere facile.
Un incanto di film, una poesia in immagini, un manuale sull'amore e sulla perdita, un film bellissimo.
Sia sempre lodato Netflix, che tra tutti i motivi che vedremo sotto, ci ha anche dato la possibilità di vederlo nonostante la sua storia.

Nel frattempo Mike conosce Kate Siegel, se ne innamora, la porta allo Stanley Hotel (donna fortunata) e lì dentro scrivono un film insieme: Hush.
Sta anche lui sul benedetto Netflix, ovviamente.
Ah, se parliamo di film apparentemente semplici questo vince il premio: un home invasion la cui protagonista è sordomuta, arrivederci e grazie.
Voleva fare un film silenzioso e in effetti ci riesce benissimo, sempre perché è intelligente. Il banale escamotage della comunicazione digitale lo sfrutta i primi 5 minuti, tanto per farci capire di chi e cosa stiamo parlando, ma una volta datoci un briciolo di contesto basta, giù i telefoni: botte da orbi.
Ha una cattiveria questo film che mi ha quasi offesa (scherzo Mike tu puoi fare quello che vuoi).
Arriva un uomo, giovane forte e prestante, crudele come solo le cose senza senso, e attacca Maddie senza che noi se ne sappia mai il motivo. Presente il celeberrimo "Perché eravate a casa?". Ecco, lui ci priva anche di quello. Un'ora e mezza tesa da diventarci matti, che non perde un briciolo di efficacia nemmeno alla seconda visione, un uso delle luci magnifico (ma io amo sempre le sue scene al buio), e una protagonista con il più grande spirito di sopravvivenza che si possa chiedere.
Non chiede manco scusa, alla fine di sta mazzata di film.

Insomma, Mike comincia a farsi notare: King lo apprezza, Oculus era andato bene al botteghino...Jason Blum (che aveva prodotto proprio lo specchio maledetto) bussa alla spalla di Mike. La Blumhouse aveva pestato una brutta cacca con Ouija. Lo sapevano tutti, era brutto, nessuno ne era orgoglioso, una brutta storia. Però aveva fatto un sacco di soldi. Ci voleva un secondo film per redimersi. Per fortuna che c'era Mike, che ha tirato fuori un Ouija: Le origini del male che fa la sua discreta figura. Niente a che spartire con quei film così personali che ci regala di solito, ma un horror efficacissimo che fa una paura del signore e che non solo ridà dignità alla BH, ma che non fa sfigurare tutto il resto del suo lavoro. La storia è quella di una medium per finta la cui figlia lo diventa per davvero e non nel senso migliore possibile. Anche qui, però, riesce ad infilare il suo adorato tema del lutto, e il rapporto tra una famiglia che deve restare in piedi nonostante il dolore.
Lui le robe leggere non le sa fare, lasciatelo in pace.

E infatti poi arriva la prima delle collaborazioni con Netflix: il miracolo Gerald's Game.
Presente Le montagne della follia per del Toro? Questo era quello di Flanagan. Girava con il libro appresso nella speranza che qualcuno glielo facesse girare, si è accaparrato i diritti e poi li ha persi e poi li ha ripresi di nuovo. Un libro infilmabile, gli dicevano tutti. Lui ha sorriso, annuito, e lo ha fatto lo stesso, e lo ha fatto benissimo.
Gerald muore di infarto dopo aver, per un gioco sessuale, ammanettato la moglie Jessie a letto.
Jessie deve liberarsi per non morire lì.
E questo è quanto. Cosa King possa fare con queste premesse è cosa nota. Cosa ha saputo farci Mike Flanagan è su Netflix affinchè lo possiate vedere tutti.
Un senso del ritmo perfetto, una recitazione eccellente, una narrazione ben più complessa di come avrebbe potuto essere e la consueta classe del Nostro nel parlare di temi eccezionalmente complicati. Stavolta non "solo" il lutto: il matrimonio, l'abuso, la sopravvivenza. Le più grandi paure di una persona racchiuse in un film breve e fenomenale, dove tutto avviene nella testa della protagonista e riuscendo comunque ad essere appassionante e coinvolgente. Mai un istante di noia, mai un istante di frustrazione: Gerald's Game è la conferma. Credevamo non potesse spingersi più in là di così, ma poi è successa La Cosa Più Grande Del Mondo e non ci sono più stati cazzi per nessuno.

Io di serie tv ne amo tante: Sherlock, Sense8, FRIENDS, Supernatural, Chernobyl...
The Haunting of Hill House ha preso tutto il resto e lo ha messo da parte, diventando il prodotto di finzione al quale sono più legata in assoluto. Non è solo questione di tecnica, quello Flanagan ce lo aveva già dimostrato: è bravissimo, ha uno stile inconfondibile e un talento che è in costante crescita. No, Hill House è molto più della perfetta tecnica con cui è girato (ciao episodio sei, ti pensiamo sempre tutti). Ne ho già parlato tantissimo ovunque e non mi dilungherò, ma se esiste al mondo una sola serie che dovreste guardare per l'amore del cielo fate che sia Hill House, la più grande storia familiare del mondo del piccolo schermo, il più profondo racconto di lutto e sofferenza che possiate vedere, un dono che Flanagan ci ha fatto, forse inconsapevole della grandezza di quello che stava mettendo in piedi. Fa una paura del demonio, e nel frattempo racconta la vita degli uomini con una tale accuratezza, con una delicatezza (ma che lui fosse fine lo avevamo già notato) e con una profondità senza precedenti. Nessuna famiglia è mai stata più realistica dei Crane, e nessuna si ama di più.
Non lo dimenticherete mai più, ed è la sola promessa che posso farvi.

Quando si pensava non si potesse fare di meglio, Flanagan fa una cosa talmente pericolosa che a scriverla non ci si crede. Gira il seguito di Shining. 
Lo so, lo so. Tecnicamente è il film tratto dal romanzo che è il seguito del romanzo, quella Splendida festa di morte che Kubrick ha elevato a mito, che sono due cose diverse. Non per il grande pubblico, però. Quello è il seguito del più grande film dell'orrore della storia del mondo. Una follia senza precedenti. Si poteva pestare un merdone che lo avrebbe affossato per sempre, ha corso il rischio della sua intera carriera. Ma mica è colpa sua se siamo entrati in sala con le mani davanti agli occhi per la paura del fallimento. La colpa è nostra che non ci abbiamo creduto. Un'operazione così rischiosa è la santificazione di Mike Flanagan. La certezza che da là, dove è arrivato, non si cade più.
Doctor Sleep è un film meraviglioso, poetico, dolcissimo, che ama tanto tutto il materiale che c'è stato prima di lui e che lo elogia in un film che non è certamente solo una lettera d'amore. La strada che ci porta a tornare all'Overlook Hotel è già magnifica da sola, e eleva a nostalgica evocazione solo nella seconda metà, quando siamo ormai completamente rapiti. Storia e personaggi magnifici, una messa in scena di classe e una villain strepitosa, Doctor Sleep poteva essere un errore imperdonabile e invece è un film di Mike Flanagan, ed è bellissimo.

Il modo che ha di parlare delle case, delle persone che ci vivono dentro e di quelle che non ci vivono più, parla dritto ai sentimenti. Non ha bisogno di fare caciara, i suoi film sono di una delicatezza rara eppure si fissano nella mente perché prima si fissano nel cuore. Sono sinceri, profondissimi, non hanno paura di mostrare quante diverse sfaccettature abbia l'amore, quanto le persone cambino in virtù di quello che la vita mette loro davanti, quanto gli eventi terribili che ci colpiscono ci rendono quello che siamo, quanto ognuno di noi ha il proprio modo di reagire all'esistenza e soprattutto quanto nessuno di questi modi sia migliore dell'altro. Il suo Danny, i suoi Crane, la sua Jessie e la sua Maddie sono volti cari, e mai, mai una sola volta ha pesato vedere tornare volti familiari, anzi. Il clima intimo che si percepisce guardando cosa porta sullo schermo è un toccasana per il cuore.

Uno dei grandi del nostro tempo, e ogni giorno sono grata di esserci nello stesso momento in cui c'è lui, per poter vedere questa grande cosa che è il suo talento crescere e diventare ogni giorno qualcosa a cui potersi ispirare per essere sempre un po' migliori.

sabato 2 novembre 2019

Due parole su Doctor Sleep

11:43
Adattamento da Stephen King, seguito del romanzo di Shining, Mike Flanagan, Ewan McGregor.
Vorrei dire che partivo neutra nei confronti di questo film, ma sarebbe una colossale bugia. 
Volevo fortissimamente che mi piacesse, se fosse stato un fallimento avrei sofferto come per un tradimento, non ero pronta a vedere Flanagan inciampare su una cosa così ambiziosa.
Il trailer però non mi era piaciuto e sono arrivata in sala con il rosario in mano, pregando ogni divinità che andasse tutto bene.
E la colpa, alla fine, è solo mia, che non ci ho creduto. Perché Flanagan è un regista di classe, elegante e dolce e ambizioso senza tirarsela e mi ha rimessa a tacere.
Doctor Sleep è proprio bello, mannaggia a lui.


Danny Torrance è ormai un uomo adulto, che deve convivere con le conseguenze della sua esperienza all'Overlook. Beve, è solo, tira avanti alla giornata. Nel mondo, però, sta accadendo qualcosa e lui non può limitarsi a guardare.

Quanto poteva essere pericoloso portare in sala un seguito di Shining?
Io non posso nemmeno immaginare la pressione. A questo punto Flanagan aveva due possibilità: allontanarsi del tutto dall'estetica del film, ché tanto nel romanzo l'Overlook non c'era più, oppure sistemare qualcosina nella trama per trovare il modo di omaggiare quella cosa immensa uscita dalle mani di Kubrick.
Ha scelto la seconda, e questo può piacere oppure no. Nel trailer a me non era piaciuto, se devo essere sincera. Invece nel film, in cui si arriva all'Overlook solo dopo uno splendido percorso prima, è stato assolutamente perfetto e in fondo non poteva che essere così. 
Se Shining è una storia di dipendenza, Doctor Sleep è una di disintossicazione, un viaggio verso la pulizia interiore, una battaglia per diventare migliori. Non lo fa solo con il personaggio di Dan, uno stupendo McGregor che è sempre più bello e sempre più bravo ogni film che passa, ma soprattutto attraverso il personaggio di Abra. Abra che è giovanissima (e brava!) e deve convivere con qualcosa che la rende potentissima e fragilissima insieme. Il loro viaggio è fatto di paura e pericolo, ed è insieme che riescono ad arrivare dove devono. 

Io lo capisco che si possa gridare al fan service. Fermo restando che io per principio non ci trovo nulla di sbagliato in senso assoluto, quello che fa Flanagan è molto di più che tornare nel nostro albergo preferito. Prima si fa un viaggio fuori dall'hotel, si combattono i cattivi in ogni modo possibile, e poi, quando si capisce che ci vogliono le maniere pesanti si usano le più pesanti di tutti. e vi viene in mente una maniera più pesante dell'Overlook Hotel in un film il cui il protagonista sia Dan Torrance fatemi sapere. Si torna all'Overlook e lì ci sono le persone che nell'hotel c'erano un tempo, in alcune delle più esemplari scelte di casting dei tempi recenti. In certi momenti sarà quasi impossibile distinguere Alex Essoe da Shelley Duvall, anche solo per il gran lavoro sui movimenti che la Essoe deve aver fatto. 
Quindi insomma, si decide che in quel posto là ci si torna. A quel punto non si poteva farlo in altra maniera, lo capirete bene. Non potevamo mica dare all'hotel un aspetto diverso, era roba da rivolta popolare. Quindi ecco lo sconfinato omaggio al più grande film di sempre. Sì, sono chiaramente di parte, l'avete visto l'header di questo blog? Si respira un tale amore per quello che è stato che come si fa a prendersela col fan service? Mica era solo per noi, era pure per Flanagan stesso. Quel ragazzone qui ha un amore per quello che fa e per chi glielo ha insegnato che il suo film è diventato un'ode. E chi le scrive, le odi? I poeti, e questo è quello che Flanagan, film dopo film, sta dimostrando di essere. Ha una sensibilità senza pari, una raffinatezza nella narrazione che strappa i cuori e soprattutto, la cosa che a me fa uscire di testa più di ogni altra, uno straordinario gusto estetico, che fa sì che ogni cosa che tocca diventi un'opera d'arte. Doctor Sleep, come tutto il resto prima di lui in un magnifico crescendo di bellezza, è bel lis si mo. Ogni fotogramma, ogni colore, ogni inquadratura, sono indicativi di un gusto che oggi, per me, nessuno ha quanto lui. 
Per favore, non fatevi limitare dalle stupide etichette di genere. Prometto che se anche i film horror non vi piacciono vi piaceranno i suoi. 

Parental Advisory: nelle prime scene c'è l'attrice che fa la piccola Nellie in Hill House. Vi ho avvisato, ho quasi urlato in sala quando l'ho vista, patatina del mio cuore.
E poi c'è Hugo. piazzato lì a tradimento. Io ve l'ho detto.


lunedì 9 gennaio 2017

Ouija: Le origini del male

20:56
Su questo blog non parliamo di Ouija, quel lungometraggio di cui il film di oggi è sequel. Fingiamo che non sia esistito e proseguiamo nelle nostre miserabili esistenze. Abitualmente mi diverte parlare di film brutti, ma quello era un oltraggio alla pubblica decenza e quindi l'abbiamo lasciato finire nel dimenticatoio in cui le creature come lui meritano di stare.
Diversi blogger, però, mi hanno messo una mano sulla spalla:
'Guarda, non so come sia successo, giuro che il due è meglio, non sembra vero nemmeno a me ma è buono sul serio'
E allora che fai, non lo guardi?
Lo guardi.


Nel primo film avevamo incontrato la famiglia che è protagonista di questo sequel: madre con due figlie. Si mantengono consolando famiglie in lutto, fingendosi medium. Loro stesse, però, sono in lutto: hanno perso padre e marito di recente e la ferita è ancora sanguinante. Quando la mamma si decide a comprare una tavoletta Ouija, allora, provano per prime a comunicare con il loro defunto, scatenando forze ben più potenti.

Niente di originale, vero?
Il film, però, è di Flanagan. Non è che lo conosca alla perfezione, io, il vecchio Mike, ma è il signore che ha girato Oculus, una robina bella assai con immagini di rara bellezza. Diamogli allora in mano il sequel di un gran pattume, e incrociando le dita preghiamo fortissimo che faccia di meglio. Confermando le ipotesi più rosee, lo fa, eccome.
Prende una storia che più inflazionata di così si muore, usa escamotage tra i più comuni (colori scuri e freddi, dinamiche familiari poco serene, bambini con sensibilità più acute che diventano l'anello di comunicazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti...) eppure finisce per fare una cosa che, paradossalmente, ha del miracoloso: fa PAURA.
Riesce nella missione che spesso l'horror si è scordato: spaventare, inquietare, far salire i brividi lungo il collo. A volte ripugna, usando la bocca come mezzo di disagio esattamente come era successo in quella scena della lampadina di Oculus su cui ancora faccio gli incubi, ma soprattutto, vista l'evidente capacità del solito MF, riesce in tutte queste cose pur avendo a sua disposizione un cast che definirei, come il consueto modo di dire, 'non bello ma un tipo'. A volte le mani sono state tenute con i palmi rivolti verso il fronte per un periodo un po' troppo lungo per essere sensato, e tendo a notare queste cose perchè mi suscitano la ridarella. A meno che tu non risponda al nome di Simon Pegg credimi che la ridarella non è quello che vuoi. Flanagan scongiura il rischio e mantiene inalterata la sensazione di inquietudine. Non era mica facile.

L'horror dell'anno (scorso)? Anche no, dai.
Una visione che fa il suo sporco lavoro e conferma Flanagan come un nome da tenere d'occhio? Per me assolutamente sì, e di questi tempi di magra sinceramente tanto mi basta.

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