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venerdì 13 ottobre 2023

La caduta della casa degli Usher - NO SPOILER

19:07
 Sono giorni che nelle storie di Instagram dico che per digerire Flanagan mi serve tempo, che non posso parlarne subito perché devo elaborare per bene, ma se siete mai passati da queste parti sapete bene che mi contraddico in continuazione, e quindi eccoci qua. 
Dopo qualche ora spesa a pensare agli Usher e alla fine della loro dinastia ho deciso di provare lo stesso a scrivere qualcosa a caldo. Per una riflessione più strutturata e magari anche full spoiler potrei fare una live la settimana prossima su Twitch, sempre compatibilmente col periodo infelice.
Vediamo se esce qualcosa di sensato.




Nel suo ultimo lavoro per Netflix, Mike Flanagan ha deciso di trarre ispirazione dai racconti di Edgar Allan Poe. Il livello di ispirazione è lo stesso delle serie precedenti, ovvero piuttosto vago. Dal racconto che dà il titolo alla serie prende la famiglia protagonista, ovviamente, gli Usher. Questi, di Usher, sono magnati dell'industria farmaceutica, vessati da un avvocato - Dupin, chi altro? -  che da anni prova ad incastrarli perché il loro prodotto di punta ha effetti collaterali molto più gravi di quelli dichiarati. Quando i membri della famiglia cominciano a cadere come foglie d'autunno il patriarca, Roderick,  decide di confessare a Dupin le sue colpe, in un lungo racconto che spiega perché degli Usher non sia rimasto più nessuno.

Non so quanto sia appropriato giudicare un prodotto in relazione agli altri del suo showrunner, ma penso che in casi come quello di Flanagan sia un po' inevitabile. Tutto il suo lavoro è una lunga disamina sugli stessi temi e temo che per forza di cose qui mi ritroverò a fare diversi paragoni.
Per la prima volta il regista decide di parlare di una famiglia molto ricca. Non che abbia mai davvero parlato di povertà, le famiglie precedenti sono quasi sempre state borghesi, ma è la prima volta in cui si cimenta con un discorso di classe, e questo cambia le carte in tavola perché prende le tematiche a lui molto care (lutto, famiglia, rapporto tra fratelli, l'abuso di sostanze) ma per forza di cose le affronta in un modo diverso, perché cambiano le posizioni di partenza.
Nelle storie precedenti ci ha abituato ad amori immisurabili: Hugo, il padre dei Crain, ha perso i figli per quasi tutta la vita per proteggere l'immenso amore che avevano per la madre, in Bly Manor Henry priva i bambini della sua presenza affinché mantengano un ricordo pulito dei loro genitori, e così padre Pruitt mente sulla sua identità per la figlia. Sono tutti ritratti genitoriali costruiti su una concezione straordinariamente generosa dell'amore, che vede l'amante annullare se stesso per proteggere l'amato. La vita di figli tanto amati cambia e li rende le persone che sono proprio perché benedetti da un sentimento così altruista, nel bene e nel male. Tutto l'immenso amore che ha messo nelle prime tre serie, ma che è presente anche in alcuni dei film, qui viene messo da parte. 
Gli Usher sono troppo potenti per volersi davvero bene. Tolte di mezzo le madri - frequente in Flanagan, sono i papà il centro del discorso - rimane un uomo milionario con sei figli che non ha idea di cosa fare di loro. Raggiunta un'età consona li omaggia di un'importante soglia di denaro - condizionale, però, perché viene elargita solo se c'è una buona idea di business in cui andrà investita - e limita la relazione allo stretto indispensabile. Può permettersi di farlo perché nessuno dei figli reclama la sua presenza, almeno non direttamente. Questi figli avuti in giro per il mondo con molte madri diverse sono arrivati a lui in virtù della vita agiata che lui poteva offrire e non hanno chiesto altro. Lui ha chiesto loro di tenere bene il nome della famiglia, con investimenti sensati e senza troppe scelleratezze. Un rapporto basato sullo scambio economico di cui tutti hanno beneficiato fino a che, uno dopo l'altro, i figli hanno iniziato a morire.
Roderick, dal canto suo, non aveva altro da offrire, e si sono bastati. Quando è giunto per lui il momento della confessione a Dupin, non è stato un momento doloroso per salutare i figli, ma solo l'unica chiusura possibile ad un disastro annunciato. Aveva creato delle condizioni tali per cui la storia non poteva che finire così, e ha agito di conseguenza. Questa non è la storia di Hugo Crain, in cui un personaggio pieno di disperazione ci fa fare un viaggio che lo renderà l'eroe. Queste sono persone che non si vogliono bene perché nemmeno si conoscono. Condividono il sangue ma alcuni nemmeno condividono il nome, condividono sporadicamente dello spazio senza che tra di loro scorra alcuna parola buona. Roderick coltiva questo clima ostile, ponendo i figli uno contro l'altro come in una partita a scacchi in cui il solo vincitore possibile fosse sempre e solo il patrimonio. 
Annullata questa componente, che nei lavori precedenti era fondamentale, quindi, cosa resta? Resta un discorso sociale di straordinaria importanza, perché se non è l'amore che ti guida, cosa può essere? In questi otto episodi prova a dimostrarci che la sola risposta possibile dovrebbe essere la morale, ma che non esiste morale in chi ha troppo potere per mettersi in relazione all'altro. La caduta della casa degli Usher diventa un dialogo sull'etica personale, su quali valori ti guidano quando non hai una guida.
Privati della radice principale, quella famigliare, i figli di Roderick sono smarriti. Sono persone di immenso successo, con uno sconvolgente potere tra le mani, ma quando vengono messi di fronte alla possibilità di fare la scelta giusta non sanno nemmeno da che parte cominciare e prendono la sola strada possibile: quella egoista. Ogni episodio vede un personaggio messo di fronte alla possibilità di essere una persona migliore, e nel momento in cui si capisce che queste persone sono senza speranza si ha già la risposta. E infatti che siano tutti morti non è uno spoiler, è l'inizio della serie.
La loro posizione li ha privati del contatto con l'umanità, anche il più semplice, e sono diventati mostruosi. Inconsapevolmente, mostruosi, perché per otto episodi non vedremo mai la minima traccia di pentimento. La società, che loro comandano come fossimo in un teatro di marionette, non ha posto per loro, così lontani da non riuscire nemmeno a metterla a fuoco davvero.   Questo si riflette molto nelle vite sentimentali dei figli, nessuno dei quali ha una relazione equilibrata. Gli Usher, nelle loro relazioni, sono sempre in una posizione di comando: chi si fa gli assistenti, chi ordina al marito cosa fare della propria vita sessuale, chi tratta a pesci in faccia il fidanzato solo perché può. 
La domanda principale che si pone è che cosa dà valore alla nostra esistenza. Se è chiaro quale sia la risposta dei personaggi, e nello specifico di Madeline, la sorella di Roderick, è allo spettatore che si rivolge. Loro hanno avuto tutto, ma non hanno lasciato nulla. La legacy della persona che si è stati come si valuta? Quali sono gli elementi di te che resteranno nel mondo dopo che te ne sarai andato? E se non resta niente di buono, qual è il senso di stare qui? Una volta che tu avrai avuto una vita straordinaria, fatta di successi e lussi ma senza nessuno che dopo ti te ne faccia qualcosa, ha comunque avuto senso?
Gli Usher hanno le idee chiare, e subiscono le conseguenze di quello che ritengono essere il senso del loro posto nel mondo, ma tu, spettatore? 
Non intendo certo dire che fa della facile morale: è chiaro che i soldi non sono tutto e che la ricchezza vera risiede in altro, ma Flanagan non è così superficiale, e va oltre. Sei più rilevante tu, che hai cambiato il mondo, o la persona inferiore vicina a te, che ha fatto cose più piccole? Perché in realtà gli Usher, da un certo punto di vista, non escono sconfitti: sono tutti morti dopo vite vissute al massimo. 
Non è il senso della vita, quello che rimette in discussione, è quello della morte. L'andarsene che cosa significa? Che cosa comporta? Apre o chiude qualche possibilità? Valiamo di più per quello che facciamo quando ci siamo o quando ce ne andiamo?
Gli Usher hanno messo sulle proprie teste una sentenza, ma essendo pieni di potere hanno avuto il lusso di dimenticarsene, e quindi agire come se non si morisse mai. Roderick e Madeline, che portano sulle spalle il peso di milioni di morti causate dal loro farmaco, hanno il privilegio della memoria corta. Eppure la loro morte non porta giustizia, e in questa mancata catarsi sta la differenza con alcuni dei lavori precedenti: se in Hill House la famiglia Crain trova una chiusura e trova nella verità il modo per sopravvivere ad un grande dolore, gli Usher sono talmente lontani dal vivere comune che nemmeno ne hanno bisogno, tanto è vero che muoiono tutti facendo quello che li ha identificati in vita: qualcuno si droga, qualcuno annulla se stess3 (censura per non spoilerare), qualcun3 muore facendo il lavoro che l3 appassionava. Anche la piccola nota positiva che ci regala l'unica nella famiglia che non ha la rogna, non serve a bilanciare il male fatto da loro, perché non è investita nello stesso settore ma finisce su strade diverse, e forse è giusto così, proprio per mantenere quel tono privo di speranza.
Gli Usher di tutto il mondo non pagano per quello che fanno, non rimettono in discussione il valore della loro presenza sul pianeta ma anzi cercano in chi gli è inferiore elementi per continuare a legittimare le proprie nefandezze. Flanagan lo sa, e non li tutela mai. Li mette di fronte all'orrore delle loro esistenze lasciando che ad indignarsi sia solo lo spettatore ferito, toccato da un senso di giustizia che loro non avranno mai. 

È una serie più cattiva, che centellina l'immenso cuore del suo creatore perché quando si parla di stronzi non gli puoi dire stupidini, devi dimostrare tutti i modi in cui sono stronzi, tutti i modi in cui non potrebbero essere altro che stronzi, tutte le maniere in cui la vita ha insegnato loro solo ad essere stronzi. Lo grida con tanta intensità che alla fine, ovviamente, lo spettatore con un po' di sentimenti soffre per loro, vittime dello stesso sistema di cui hanno così a fondo goduto. Poiché comunque quel cuore lì lui ce l'ha, ci mette tante ore per farti vedere che tutto quell'amore lì negato, che la serie ha tenuto chiuso fuori, era la sola cosa che serviva a tutti, e che nessuno è stato in grado di elargirla, prima ancora che di trovarla.
Stupido Flanagan, mi fa piangere anche per i miliardari. 

lunedì 10 ottobre 2022

The Midnight Club

16:51
 Qualche giorno fa ho chiesto su Instagram se fosse meglio parlare della nuova serie di Mike Flanagan, arrivata il 7 ottobre su Netflix, per iscritto, qui sul blog, oppure in live il prossimo mercoledì, il 12 ottobre. Ha vinto la terza opzione, quella di discuterne in entrambe le sedi, quindi eccoci qui. Se vi interessasse partecipare anche alla live il link è qui di fianco, nel banner. 
Ho deciso che qui faremo una chiacchierata più emotiva, sulle sensazioni a caldo che la serie mi ha lasciato, mentre in live cercherò di arrivare più preparata per una chiacchierata più strutturata. Un altra differenza sarà nella presenza di spoiler: questo post non ne avrà, la live sì.

Questa distinzione fa sì che io in questa sede mi permetta di iniziare la chiacchierata con una piccola parte di fatti miei, che per forza di cose influenzano quelle sensazioni a caldo di cui sopra. 
Il cancro fa parte della mia vita da quasi due anni. È entrato nella mia famiglia con calma, quasi come se lo stessimo aspettando. È uno di quei tumori causati dalla vita, dagli errori di chi oggi se lo porta appresso, ed è quasi come se l'avessimo visto arrivare. Adesso è qua e pare non abbia intenzione di terminare il suo soggiorno a breve, il che per forza mi ha reso una spettatrice di The Midnight Club particolarmente provata. 
È stata una visione impegnativa, ma del resto Flanagan semplice non lo è mai.




La serie, tratta da un romanzo omonimo di Christopher Pike, racconta di un gruppo di ragazzi colpiti da diverse malattie, tutte allo stadio terminale. Per avere un fine vita il più confortevole possibile vivono in un hospice, dedicato agli adolescenti e gestito dalla dottoressa Stanton. Ogni notte, a mezzanotte, si svegliano e si radunano in una sala, con il vino - o la camomilla - e un camino acceso a scaldarli, per raccontarsi delle storie. Lo chiamano il Midnight Club.

Everybody likes a great story.


Già da quel poco scritto su, avrete riconosciuto il primo grande tema del Nostro: la morte. È dai tempi di Absentia che vediamo Flanagan parlare in modi diversi dell'assenza di chi amiamo. La morte è stata un elemento fondamentale di quello che ha fatto finora, ma in questo caso fa un cambiamento radicale: sposta il focus. Se finora abbiamo l'abbiamo visto parlare del fine vita dal punto di vista di chi sopravvive, adesso rivolta completamente la faccenda, per dare tutta l'attenzione a chi sta morendo. 
È molto più facile - da spettatori - confrontarsi con questa visione della morte, perché è quella che conosciamo. In un modo o nell'altro abbiamo incontrato questo aspetto dell'esistenza. Molti meno di noi, invece, sono stati messi di fronte al fatto che la propria vita stesse finendo. Se finora il suo parlare di morte ci ha aiutato a convivere con i nostri lutti, quelli della vita reale, questa volta ci ha messo di fronte a qualcosa che la maggior parte di noi, quella fortunata, non conosce se non per vie traverse.
Lo ha fatto spostando la morte un po' più in là, ma dichiarandola subito. Apre la serie dicendoci nei primi minuti che la protagonista non sopravviverà, e come lei nessuna delle persone che la circonderanno nel corso degli episodi. 
Sebbene la morte sia l'unico elemento comune di tutte le esistenze, tendiamo a mettere da parte il pensiero che ci sia perché possiamo permettercelo. È costante, ma distante. Ai protagonisti di Midnight Club questa distanza non è concessa, e immediatamente il pensiero che potrebbe avvenire da un momento all'altro cambia l'aria che si respira nella serie. L'atmosfera è cupa e pesante perché si respira la morte. È una cappa che sta sospesa sulle loro vite. È per via della morte che stanno tutti lì, è per via della morte che questa famiglia stupenda e scassata e affettuosa è nata. 
Quando la morte è un po' più vicina il pensiero non si cancella mai. Sta lì, come un avvoltoio che ti osserva da lontano mentre prosegui nella tua quotidianità. E loro, dell'avvoltoio che li guarda, non ne parlano quasi mai.
I ragazzi stanno insieme tutto il tempo che hanno a disposizione, perché ne hanno poco e se lo divorano tutto. Si presentano con i nomi delle loro malattie "Ciao, cancro alla tiroide.", "Ciao, leucemia." ma poi riprendono a parlare delle cose degli adolescenti normali: le ragazze, le relazioni, la playstation. Ma un momento di tregua, Flanagan, di reale alleggerimento, questa volta non ce lo concede mai. Se abbiamo avuto momenti, nelle serie precedenti, di distaccamento dal dolore, in questo caso non c'è pietà.
Nell'hospice ci sono tutto il giorno. Se escono per fare esperienze da giovani sani, queste saranno sporcate dal rapporto della società con la malattia. Se cercano relazioni, saranno influenzate dalla malattia. Se trovano una comunità che somiglia loro, non se la potranno godere, per via della malattia. Ci sono momenti di sollievo, di sorrisi (risate mai), di miglioramento, ma tutti sono insozzati dalle diagnosi. 
Nella mia esperienza, è davvero così. Stai bene, pensi ad altro, crei buoni ricordi. Alla sera, però, quando fai un bilancio di come sta andando, niente va mai bene davvero.
Non che io possa davvero identificarmi, perché qui Flanagan fa qualcosa di fondamentale: non solo sposta il focus ma elimina del tutto chi circonda i malati. Non è di loro che gli importa parlare. Questi giovani hanno delle famiglie, alcune molto belle e altre molto problematiche, ma non si parla quasi mai di loro in relazione alla malattia, o al fatto che i propri ragazzi stanno morendo. C'è una scena molto significativa in questo senso, quella della famiglia di Kevin per intederci con chi abbia visto la serie, che resta su questo tema, ma è quasi l'unica. Anche in quella, però, non è di Kevin come individuo che si parla, ma solo della sua eredità sul fratellino minore (perché sapete che MF ha pure una fissa per i fratelli). Lui non conta. Il padre affidatario di Ilonka non vuole affrontare il tema, per lui è troppo. I genitori di Cheri non si ricordano manco di avere una figlia. La madre di Spencer ha un problema con l'omosessualità del figlio, ma del fatto che lui stia morendo non ne parla. Anya è sola. 

I ragazzi, quindi, sono mollati a se stessi. Il supporto della dottoressa Stanton non è quello di cui hanno bisogno. Poiché stanno per mancare, è di raccontarsi che hanno bisogno, e lo fanno con le loro storie. Chiusi in una stanza, lontano dalla Vita Vera, quella che scorre di giorno senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, hanno bisogno di esplorarsi, perché sono proprio in quell'età in cui stanno diventando persone complete e indipendenti, e poiché non è previsto per loro un futuro pieno di tempo in cui conoscersi, lo fanno di notte. Danno nomi inventati a personaggi di cui hanno bisogno per darsi un volto e guardarsi da fuori, per descriversi agli altri cercando di mantenere la giusta distanza per "vedersi" meglio. In un momento in cui il loro corpo li sta tradendo, la loro mente ha ancora bisogno di costruire, elaborare. Alcuni di loro hanno un passato difficile con cui devono fare i conti, e lo lasciano sulle spalle dei loro personaggi, perché il loro carico sia meno pesante. Altri hanno bisogno di perdonarsi. Altri ancora non sono in grado di guardarsi con lucidità, e sono attanagliati dai sensi di colpa. 
Sono ragazzini pieni di vita interiore, pieni di cose da dirsi, con le gole riempiti delle parole che non avranno tempo di dire. E quindi giocano, esplorano, si spaventano e si consolano. Usano le storie come la più suprema delle cure palliative, anche se finisce sempre che piangono tutti quanti. Ogni tanto si fischiano se la storia non funziona.
Quello che sta accadendo loro è troppo, e quindi lo si affida a qualcun altro, ad un alter ego di finzione, che il cancro non ce l'ha per davvero. Aprono se stessi ai loro amici come spesso gli adulti non sono in grado di fare, concedono al piccolo pubblico i propri pensieri più intimi, mascherati da favola della buonanotte. Si fanno paura, si coccolano, si intrattengono.
Sperano.

Gli otto protagonisti sono in stadi differenti dell'accettazione della malattia. Sono persone diverse che, in quanto tali, affrontano quello che gli sta accadendo in modo diverso, eppure non si giudicano mai. Ilonka non ci può convivere, con questo pensiero, Anya nasconde un dolore grande quanto il mondo intero dietro ad un muro di ostilità e diti medi. Spencer ha un carico così impegnativo sulle spalle, che non deriva solo dalla malattia ma da tutta la sua storia, che il fatto di essere malato è quasi secondario. Cheri è sola, sola, sola. Circondata di oggetti, ma con così tanto gelo intorno da doversi costruire delle storie anche di giorno, per sopravvivere alla straziante solitudine di una ragazzina che sta male e non ha nessuno con cui piangere per la propria condizione. Kevin è l'adulto del gruppo: è sereno, convive pacificamente con quello che gli succede, sorride a tutti con un candore commovente e tutta la sua tranquillità cerca di donarla a chi lo circonda, perché è uno splendore di essere umano. Natsuki, invece, è clinicamente depressa, eppure è quella che parla dall'interfono alle amiche in isolamento, per non farle sentire sole. Sandra ha il suo Dio, la sua fede, ad aiutarla a gestire questo cammino.
Sono diversi, sono capitati insieme per caso o per destino se ci credete, eppure nessuno guarda agli altri con sdegno, invidia, giudizio, malizia. Sono così aperti a comprendersi, ad abbracciare l'uno il modo dell'altro di sopravvivere, giorno per giorno, all'esatto opposto di sopravvivenza. Quando ci sono screzi, perché sono pur sempre 8 adolescenti chiusi a vivere insieme nella stessa casa, sono presto risolti. Si vogliono troppo bene perché qualcosa li allontani davvero.
Quando qualcuno inizia a mancare, e non è spoiler perché è pur sempre un hospice, non si lasciano andare a gesti estremi nel manifestare il proprio dolore - cosa che comunque non avrebbero giudicato - ma cercano l'uno nell'altro il supporto necessario per continuare a vivere, un altro po'.

Flanagan ha così a cuore questi ragazzi e le loro tristi storie, che ce le racconta con la stessa cura che hanno loro nel raccontare se stessi. Non c'è niente di sorprendente, in questo: che fosse un narratore di sorprendente eleganza lo sapevamo già. Che fosse in grado di toccare l'anima di chi assiste alle sue opere lo avevamo già sperimentato. In questo caso abbatte ogni muro. Non solo non c'è niente di male a piangere, ma bisogna farlo. Bisogna soffrire e buttarle fuori, quelle cose brutte che abitano nella mente e nel cuore quando stiamo male, perché non c'è niente di valoroso nel soffrire in silenzio. Chi ha il cancro (come anche tutte le altre malattie di cui la serie parla) non è un guerriero. Non serve, come lo fa chiamare dalla Stanton, il linguaggio da guerra. Non c'è valore nel tenersi dentro la sofferenza, non c'è debolezza nel dire, a chi lo si desidera, che si sta male. 
La vita non può e non deve essere una battaglia, e non deve esserlo nemmeno la morte.

Ogni volta di più Flanagan mi insegna come devo fare, per deporre le armi. Ho parlato a lungo della malattia di mio papà con una persona della mia vita che a sua volta l'ha conosciuta da vicino, e che si è sempre spesa in parole splendide nei miei confronti, complimentandosi per la mia forza. 
Mike, però, lo sa bene che non sono forte per niente. Che Anya è più forte quando si lascia andare, Ilonka quando accetta, Kevin quando lascia andare il senso di colpa, Cherie quando esce dalla stanza.
Io, che da tanti anni tengo il fucile sempre sottobraccio, ci devo lavorare ancora un po'.

venerdì 29 ottobre 2021

Halloween 2021, i consigli di casa Redrumia

18:04

Quando sei una di quelle persone che guarda horror tutto l'anno indiscriminatamente, Halloween è occasione per sconfinate emozioni. Un pochino siamo entusiasti di vedere finalmente che la nostra Cosa Preferita Al Mondo protagonista del mondo e del marketing mirato, un pochino rosichiamo perché vogliono tutti giocare con il nostro giocattolino, un pochino ce la tiriamo perché vengono a chiederci consigli su cosa vedere. 

E anche se non ce li chiedesse nessuno, noi ve li daremmo comunque, perché in fondo è pur sempre la festa più importante dell'anno e questa è la nostra versione del cantare il Carol of the bells in piazza bevendo il vin brulè.

Quindi, eccomi qui con i miei, in ordine rigorosamente casuale ma almeno divisi per le piattaforme a cui la Vostra da i suoi (pochi) soldi.




NETFLIX


Il catalogo Netflix dell'orrore è francamente dimenticabile, e se non fosse per il legame tra la piattaforma e l'uomo della mia vita Mike TiAmoPerSempre Flanagan sarei tentata di cancellare l'abbonamento. 

Non è tutto da buttare, però. Non manca qualche Grande Classico, come il Suspiria di Argento, Non aprite quella porta, buona parte (forse tutta?) la saga di Chucky, Lo Squalo...a me per Halloween piace anche rivedere i famosonioni quindi qui ho un po' tra cui scegliere. 


Dando per scontato che abbiate visto le nuove uscite più chiacchierate dell'anno di loro produzione (A classic horror story e la trilogia di Fear Street), ecco le cose che consiglio io:

  • His House. Credo sia ancora il mio film dell'anno (tra le mie visioni, non tra le uscite), anche se la battaglia con Titane è durissima. Una storia di fantasmi, di immigrazione, di tragedie personali e universali, e, per essere sincera, il film che mi ha fatto più paura degli ultimi anni. Scritto con il giusto equilibrio tra la delicatezza e la durezza dei temi trattati, è un film magnifico.
  • The Host. Un meraviglioso, e dolorosissimo monster movie. La prova provata, in caso ce ne servisse una, che Bong Joon-ho può fare con il cinema tutto quello che gli pare e qualsiasi cosa farà sarà una poetica ma lucidissima analisi di quello che sono le persone e i legami familiari. Lo so che sono molto ripetitiva, ma ormai ho capito che sono queste le storie che mi attraggono.
  • The Neon Demon. Così tanto chiacchierato alla sua uscita e così presto finito nel dimenticatoio, non fatevi imbrogliare dalla velocità con cui l'internet oggi passa da un film all'altro. The Neon Demon è BELLISSIMO. Così abbagliantemente bello che vi ritroverete a cercare la sua immagine negli altri film che vedrete. 
Netflix ha dalla sua parte il fatto di avere nel catalogo cose molto molto note, che era inutile segnalare come mie scelte ma che ha senso almeno citare: Il caso Enfield (non fidatevi delle persone a cui non è piaciuto Il caso Enfield, non vogliono il vostro bene), le cose più anni 90 a cui vi viene da pensare, Urban Legend e Final Destination, quella commovente delizia che è The Final Girls.


PRIME

Prime invece si difende bene. Ha però due difetti che mi sento di sollevare in virtù della vena polemica che mi accompagna da sempre. In primo luogo questa cosa di inserire delle cose a pagamento mica la mando giù. Cioè lo capisco pure, ha un senso, ma puoi non inserirmeli nell'interfaccia insieme agli altri? L'app e l'accesso da browser di Prime non sono esattamente user friendly, e ogni volta li devi separare maualmente, puntualmente DOPO avere visto che c'è a pagamento PROPRIO quel film che volevi vedere tu. Però senti Prime, così anche no.
Seconda polemica: le cose solo in italiano sono una forma di violenza a cui non ritengo corretto dover essere sottoposta. Ma perché? Che schifo ti faceva la scelta? Non la mando giù. 
Nonostante questo, tre titoli da consigliare li troviamo comunque.

  • Autopsy. Fidatevi di una "recensione" breve ma sincera: questo da una paura della miseria.
  • La notte ha divorato il mondo. Questo è uno zombie movie interessante, perché ripercorrendo elementi noti del genere ne introduce un paio di nuovi parecchio interessanti: parla di solitudine, e della ricerca di un'umanità anche laddove se ne sia persa traccia, e parla anche di come si possa preservare la propria salute mentale in situazioni di emergenza. Il protagonista è un musicista e, rinchiuso in casa dopo l'apocalisse z cosa fa? Suona. Cerca modi di mantenere la propria identità. Mi è piaciuto.
  • Patto di sangue. Un divertentissimo e cattivello slasher del 2009, con alcune protagoniste che sono state simbolo dei primi anni 00 e un delizioso cameo di Carrie Fisher.
Anche Prime ha tutta la sua bella serie di classici e classici moderni, come 28 giorni dopo, Halloween, Drag me to hell...ma soprattutto c'è Martyrs, che fossi in voi riguarderei perché presto arriva l'episodio di Nuovi Incubi a tema.


DISNEY+


Una volta sarebbe suonato strano proporre contenuti adatti ad Halloween su una piattaforma Disney, ma siccome nel frattempo si sono acquistati tutto quello che il mercato aveva da vendere, eccoci qua a elencare cose da vedere la sera del 31.

  • The Rocky Horror Picture Show. Lo so, non è la più originale delle scelte, ma non importa. Non è davvero Halloween senza si lui, dai. Almeno come sottofondo musicale mentre cucinate. Ci vuole.
  • Jennifer's body, aka il film più rivalutato degli ultimi 20 anni. Se ancora non siete diventati team Jennifer, è il momento, e sta lì su D+ bello comodo.
  • Il cigno nero. Anni fa in un post avevo detto che questo è un film dell'orrore e almeno in 5 mi avevano scritto per dirmi che non era vero. Io siccome non sono una persona che porta rancore ve lo ripropongo, così che possiate rivederlo per venirmi a dire, dopo, che avevo ragione io.

E poi va beh, tutti i classici per famiglie ci sono, da Hocus Pocus a The Nightmare Before Christmas, conoscete la faccenda.


CHILI


Ho recentemente scoperto che anche Chili ha la sua sezione di film gratuiti da guardare con la pubblicità. Finalmente! 
Da lui segnalerei:

  • Shutter, l'originale asiatico. Uno dei film che mi ha sconvolto dal terrore più di tutti nella mia vita. Alla fine ero atterrita. Diciamo che è un'esperienza.
  • The Woman, che se non ve lo ricordate è quel film che vi lancia una mattonella in faccia e se ne sbatte le palle se vi siete fatti male.
  • The Gerber Syndrome. Found footage a tema zombie tutto italiano che non rivedo da anni ma che ricordo con grande piacere.
C'è anche una vasta selezione di Argento, e diversi dei film a tema squaloni giganteschi e indegni che insomma non sono roba da prendere sul serio ma per l'Halloween alcoolico sono la cosa ideale. Ci sono anche la saga di Puppet Master e Cannibal Holocaust, che lo so che è un film che amano anche i sassi ma io con lui sono arrabbiata e non lo consiglio a nessuno.


RAIPLAY


Mi dimentico troppo spesso, quando devo scegliere che film vedere, della presenza di Raiplay, che invece poverina è una piattaforma che non va sottovalutata. È pure gratis.

  • Demoni 1 e 2. Davvero, sono qui, che vi aspettano. Lo so che li volete rivedere.
  • The ward. Io distinguo le persone in due categorie: quelle a cui questo film piace e quelle a cui invece no. Vi lascio immaginare a quale delle due appartengo io.
  • La cosa da un altro mondo. Lo vedete che non me lo dovete sottovalutare, Raiplay?

Ci sono anche qui diversi Argento e parte della saga di Saw se fa per voi.


Personalmente credo mi butterò in una maratonina di tutti quei film Netflix usciti questo mese e che ancora non ho avuto tempo di recuperare. 



Buon Halloween a tutti!

lunedì 27 settembre 2021

Midnight Mass

16:59

 Avevo scritto su Instagram (il link per seguirmi se vi va è qui di fianco!) che mi sarei presa qualche giorno per scrivere della nuova serie di Mike Flanagan sul blog. Il punto è che l'ho finita ieri sera, e stamattina mentre passavo sulla cassa del supermercato i prodotti ignorando chiunque li avesse comprati non ho saputo pensare ad altro. Nemmeno mentre guidavo stamattina prima dell'alba con gli occhi ancora incrostati di sonno, e nemmeno al ritorno, mentre mi mangiavo un tramezzino in auto. 

Voglio parlarne subito, e sapevo sarebbe stato così, inutile fingermi la persona rilassata che non sono.





La vicenda è ambientata nella piccola Crockett Island, abitanti 127. Riley vi fa ritorno dopo un periodo passato in carcere e lì ritrova la sua famiglia e la sua ex fidanzatina del liceo, Erin, ormai donna adulta e in visibile stato di gravidanza. La piccola comunità è toccata da un evento: lo storico sacerdote Monsignor Pruitt si è malato durante un viaggio spirituale e al suo posto la curia ha mandato il giovane padre Paul, carismatico, capace di prediche che rendono le sue messe esperienze nuove. Nel corso della storia faremo la conoscenza di vari abitanti dell'isola: Beverly, la perpetua, Leeza, la giovane con una disabilità motoria causata da un brutto "incidente", lo sceriffo Hassan, unico membro musulmano della comunità, Joe, l'ubriacone del villaggio, Sarah, il medico, e le loro famiglie. È una serie corale come se ne sono viste poche, perché nessuno è secondario. Ogni personaggio è guardato con sguardo così approfondito che in due episodi li sentiamo vicini come se li conoscessimo da sempre.


Quando crei qualcosa come The Haunting e poi decidi di interromperla perché hai altri progetti, la gente come me non la prende benissimo. Ripongo in Mike Flanagan la fiducia più cieca, però The Haunting of Hill House è diventata così importante per me che non ero pronta a lasciarla andare per avere qualcosa di nuovo. Bly Manor era già un modo per allontanarsene, ma manteneva lo stesso calore, la stessa impostazione. Arrivando con queste premesse alla visione di Midnight Mass sono rimasta per forza di cose quasi delusa dai primi due episodi. Il calore, la familiarità, l'immediatezza di Hill House qui non c'erano. Prometto che il post non sarà un confronto tra le due, portate pazienza con me, sto ancora riordinando i pensieri. 

Laddove mi era stato sufficiente vedere i Crane per 5 minuti per cadere inesorabilmente innamorata di tutti quanti, qua la costruzione è più lenta. In una serie che dura solo (S O L O) sette episodi, prendersene due belli pieni per introdurci e farci sentire a casa sull'isoletta sono un bel lusso che il regista si è preso. A visione terminata non posso dire che siano pesati nell'economia della storia, perché da un certo punto in poi il coinvolgimento emotivo tramortisce quasi e il fluire della vicenda non arranca mai. Ovviamente, e come sempre, aveva ragione Flanagan. Servivano due episodi così, misurati e composti, perché poi Midnight Mass diventa impegnativa, e quando lui decide di metterci il carico da mille lo fa senza paura di far male a chi vi assiste.


Spero non passi il messaggio che la serie è impegnativa nel senso di respingente, noiosa, pesante. Non è così. Ha del miracoloso, per restare in tema, il modo in cui F. sia in grado di costruire qualcosa di così difficile in un universo narrativo nel quale riesce ad inserirci immediatamente come membri attivi, e di conseguenza molto partecipi di quello a cui assistiamo. Non siamo solo fruitori del mondo che ha creato, ne siamo completamente immersi. Non fare una binge di Midnight Mass è pure meglio: si sentono gli odori del mare, del pesce appena pescato e dell'incenso anche quando la tv è spenta. Segue lo spettatore per tutta la sua durata, perché è tanto immersiva l'esperienza che non ci si stacca dalla Crock Pot solo perché è finito un episodio. 

E lo è così tanto, in maniera così prepotente rispetto a tutte le altre serie tv mai scritte, perché nessuno parla delle persone come lo sa fare Mike Flanagan. Questa non è una serie sugli eventi, che pure ci sono e sono parecchio intriganti (e messi in scena come Cristo comanda, per restare in tema, è la serie della maturità di F e si vede), è una serie sulle persone. Su come gli eventi toccano le persone, su come una piccola comunità si muove, respira, vive. Su come crescere lontani dal resto del mondo renda tutti uniti attraverso un filo invisibile. Riley e Erin non si vedono da anni, perché hanno entrambi per un po' lasciato l'isola. Quando si ritrovano, è tutto come prima. Romanticamente potrebbe essere anche solo perché si sono sempre amati, oppure il fatto che nessuno, a parte loro stessi, può comprendere cosa significhi lasciare un posto come quello, che diventa parte della tua identità, e poi tornarvi, diversi ma sempre uguali.


Facciamo una parentesina di cavoli miei come al solito? Ma facciamola.

Io sono atea da tanti anni, ma ho frequentato l'ambiente della parrocchia del mio paese a lungo. Non l'ho solo frequentato, sono stata un membro attivo della parrocchia, ho fatto catechismo anche DOPO la Cresima, ho mangiato pizze a casa di preti, ho cantato in cori e pulito teatri luridi dopo spettacoli del Grest. La cultura cattolica fa parte del mio vissuto, con l'aggravante che oggi è una delle cose che mi spaventa di più al mondo. L'estetica cristiana è spaventosa, la Bibbia presa alla lettera un macabro libro dell'orrore, le croci mi inquietano, la fede mi allarma. Però una cosa è vera, e va riconosciuta: per chi ce l'ha davvero, la fede è una lente sul mondo che può dare consolazione vera, e io per quella cosa qua provo sincera invidia. Midnight Mass fa il più importante racconto della fede che ho mai visto in tv, quello più sincero. 

Tutti i personaggi hanno un rapporto con la Chiesa: chi, come Riley, ha un rapporto finito; chi come Erin, ha una relazione che sta ricominciando; chi, come Bev, ne ha fatto il solo senso della vita o chi, come Hassan, è riuscito a mantenere un rapporto sano con la propria spiritualità. La Chiesa, nella persona di Monsignor Pruitt prima e di padre Paul poi, è il centro di ogni dinamica relazionale, è la routine, è Casa. In mezzo alle situazione disperate che tutti si trovano ad affrontare, economiche, psicologiche, di salute fisica, la piccola chiesetta di Saint Patrick sta lì, ad accogliere. A dare speranza. A ricordarci che se ci comportiamo bene ci aspetterà la felicità eterna, che non dobbiamo avere paura di nulla perché le nostre spalle sono sempre coperte da un essere superiore e che ci ama e ci protegge sempre, e che se anche la paura ce l'abbiamo dobbiamo abbracciarla, accoglierla, perché ci sono date solo difficoltà che siamo in grado di affrontare e che pertanto ne usciremo sempre vincitori. Erin aveva bisogno di questo, quando è tornata, di calore e senso di appartenenza. Per un periodo, poi, quando perde che le aveva dato calore da dentro di sè, smette di frequentarla. Bev, donna atroce e spaventosa, è ritratta in realtà come una persona profondamente sola, che ha cercato nella Chiesa e in Dio i soli compagni di una vita disperata che lei maschera come perfettamente realizzata. Si sente eletta, benedetta, illuminata da una luce divina che la rende migliore degli altri, quando in realtà è una miserabile, una donna che non ha saputo costruire nulla per se stessa e che nel ruolo che si è costruita e imposta ci si è infilata dentro, al sicuro da tutto il resto del mondo. Si è ritagliata uno spazio in cui sentirsi sicura, migliore, per legittimare se stessa nel suo sentirsi superiore a chiunque altro.

Non è un caso che loro due siano tra le poche che la Chiesa continuavano a frequentarla anche nei momenti di minor affluenza. Loro e Leeza, ma di lei parliamo poi. Il resto della popolazione torna a sedere tra i banchi di S.Patrick quando avviene un miracolo. Neppure questo stupisce: se la Chiesa può questo, allora tutti sentono di avere diritto a qualcosa di buono. Il luogo sacro ritorna luogo di speranza, di preghiera. Perché siamo tutti così, ci sentiamo tutti legittimati a chiedere qualcosa in cambio delle belle persone che siamo. Flanagan lo sa, ma non ci giudica. Ci mette in mostra, ci racconta, ma sempre senza uno sguardo giudicante. Perché lo sa che siamo stati tutti imbrogliati da secoli di propaganda cattolica, in cui il bene esisteva solo in quanto frutto di ricompensa certa, in cui ci veniva fatto credere di essere Amati da Lui, e che questo ci rendesse speciali e, quindi, intoccabili. Non è un caso neppure che uno dei personaggi, nel tentativo di ferire Bev, le dica che Dio ama lei tanto quanto ama gli ubriaconi e gli assassini. Perché tanta e tale è stata l'influenza dell'uomo in quello che stava nelle Scritture che pure il più basilare concetto cristiano, l'uguaglianza tra le persone, l'amore verso il prossimo, è oggi una lontana utopia, e Bev questo aspetto lo incarna alla perfezione. È crudele verso gli uomini e gli animali (non mi stancherò mai di gridare il tw per quanto riguarda la violenza sugli animali, occhio che fa malissimo), è razzista, misogina, invadente, snervante. Riesce ad essere al tempo stesso un perfetto riassunto di tutto quello che la Chiesa non vuole e anche quello che la Chiesa, in effetti, è. E la si detesta, sia chiaro, la stronza mangia particole (cit. la mia amica Silvia). La si detesta perché siamo umani funzionanti ed empatici, ma Flanagan riesce comunque a regalarle quella patina di atroce solitudine, di tristezza, di dolore, che riescono ad emergere anche nella seconda metà della serie, in cui si palesa in modo ancora più prepotente come la persona squilibrata che è. E soprattutto nel suo infelice finale, dove si vede quanto niente con lei funzioni, quanto niente ormai potrebbe cambiarla più, neppure il peggiore degli scenari possibili. Lei, da tutto quello che accade, non ha imparato niente. Vuota era, e vuota è rimasta, riempita solo dell'aria gonfia che è la religione.

Alla fine di tutto la serie parla di disperazione. Ogni personaggio ha sensi di colpa, dolori passati e presenti, vuoti, fragilità. E tutti si riversano lì, nel luogo in cui avvengono i miracoli, perché se c'è spazio di redenzione per gli altri allora ci deve essere anche per me. Riley ha pagato il suo conto con la società ma è ben lontano dal saldare quello verso se stesso, ed in mano all'interpretazione di Zach Gilford (che amo da quando era Matt di Friday Night Lights) ci regala un personaggio con gli occhi spenti, incupiti da quello che ha fatto e da quello che gli capita nella serie. Con lui, una Kate Siegel che ha finalmente il ruolo da protagonista che merita. Qui è una Erin eccezionale: intensa, con gli occhi giganti spalancati prima di tutto dentro se stessa, perché capace di analisi e conoscenza di sè invidiabili. I due si parlano, discutono di massimi sistemi sul divano di casa, scardinando le proprie certezze sulla vita e il suo senso, sulla morte e il suo significato. Ci sarebbero trattati interi da scrivere, sui dialoghi e sui monologhi di questa serie magistrale. Perché è una serie in cui si parla tantissimo, in cui non si fa altro che discutere delle cose. Si parla, si litiga, si chiarisce, si predica, in cui prova a parlare anche chi non è abituato a farlo, come il padre di Riley. Parla Leeza, quando si sente nella posizione migliore per farlo, nella scena più atroce della serie, il confronto con l'uomo che l'ha resa paralizzata dalla vita in giù, Joe Collie. Lei parla, parla, parla, vomita addosso all'uomo tutto l'odio e il rancore che non era riuscita a elaborare prima, in una capacità di autoanalisi sconvolgente, lasciando il pover'uomo in condizioni pietose. Ho provato così tanto dolore, per Joe Collie, in questa serie, che ho dovuto interrompere un paio di volte la visione, per andare a prendere una boccata d'aria fresca e ricordarmi che era solo finzione. Il ruolo è interpretato da Robert Longstreet, e meritava una menzione perché mi ha cavato il cuore. Un uomo incapace di mettere in parole i suoi pensieri, che può solo piangere disperatamente mentre una ragazzina gli vomita addosso tutto l'odio di cui è capace, che soffre ancora di più quando viene perdonato. Un uomo senza gli strumenti emotivi per perdonarsi da solo, incapace di fare altro se non scusarsi ripetutamente, soffocato, inascoltato. Un uomo che inizia a parlare solo quando trova un altro disperato come se stesso, un altro annientato dalle proprie scelte, un altro che deve convivere con le conseguenze delle proprie decisioni. Personaggi come Joe Collie parlano alla mia storia personale e non posso prescindere da questa consapevolezza quando mi rendo conto che sono quelli per cui soffro di più. F., però, li ritrae in maniera così complessa, così autentica, che è impossibile non trovare qualcosa di sé e del proprio trascorso in uomini come lui, con i quali il mondo ha fallito, verso i quali la società è colpevole. 


Midnight Mass finisce nell'unico modo possibile, e non era scontato. Poteva avere un finale più tradizionale, poteva riavvicinarsi a certi aspetti dell'horror più canonico, poteva farci sognare con una dolce storia d'amore, poteva dare redenzione. Sceglie di non farlo, di toglierci le certezze da sotto i piedi, di privarci del sollievo. Sceglie di parlare di sacrificio, che non è più nel senso cattolico ma solo genuino amore per chi si intende salvare, parla di chi sceglie di restare insieme fino alla fine, in un ultimo momento di comunione spirituale. Nel mezzo, tra quell'inizio modesto e il suo finale in fiamme, la serie riesce a fare uno straordinario ritratto dell'umanità, delle sue fragilità, dei suoi meccanismi di protezione. Parla di adolescenti in modo affettuoso, di scienza e religione, di appartenenza, di perdita, di razzismo, parla di relazioni lunghe anni fatte di piccoli momenti di candore, parla di convivere con quello che si è, di quanto accettare quello che la vita ci pone di fronte sia un concetto sopravvalutato, di quanto siamo sempre parte di qualcosa di più grande.

Se dare a questa frase un significato religioso, o cosmico, o pessimista, sta a noi. 

sabato 18 settembre 2021

Sex Education - stagione 3

16:51

 L'abbiamo aspettata tanto, e come accade sempre in questi casi, me la sono bruciata troppo in fretta.

Signori, parliamo della terza stagione di Sex Education.




La serie parla di un gruppo di adolescenti alle prese con la scoperta della propria sessualità e della vita adulta. In questa stagione li vediamo affrontare alcune novità, una su tutte una nuova preside a scuola, Hope, rigida, bigotta e che introduce una serie di nuove regole volte a rovinare la vita dei nostri giovani preferiti.


La serie si conferma, proprio come l'avremmo previsto, il prodotto delizioso e fresco che era stato per le prime due stagioni, in grado di toccare temi giganti, di estrema attualità, in grado di mettere il focus nei punti giusti, con il dialogo giusto e i personaggi giusti. 

Ora, pare scontato dover fare una premessa. In un mondo ideale i disabili non sono solo disabili, le persone della comunità LGBTQ+ non sono solo tali, le persone nere non sono solo la pelle, la diversità è una caratteristica del mondo punto e basta. Lo so io, lo sapete voi, lo sanno bene gli autori della serie. Però siamo in un mondo in cui Barbara Palombelli può dire in tv che è giusto chiedersi se le donne ammazzate avessero esasperato i loro compagni, capite bene che una serie tv come questa non è solo importante, è fondamentale. 


Rappresentazione


Parliamo di questo, quindi, per primo. 

Sex Ed è una serie che parla di tutti, a tutti, per tutti. Ci sono sono persone di ogni orientamento, identità, abilità, origini. E non per tutti la loro "diversità" fa parte della storyline. Per qualcuno sì, perché una serie che parla di adolescenti non può lasciare fuori l'elemento della scoperta di sé, ma non è mai la sola cosa che accade. Isaac, il personaggio con una disabilità, è un personaggio facilmente detestabile, arrogante, irrispettoso, che odiamo anche perché siamo dei 15enni che vorrebbero Otis e Maeve insieme. Poi è anche una persona che per muoversi ha bisogno della sedia a rotelle, ma il come e il perché gli sia necessaria non sono rilevanti, e pertanto (se non mi sbaglio) non escono mai nel discorso. Cal, il personaggio non binary, non ha una storia di scoperta di sè, arriva ed è già a posto con sé. Certo, col tempo avrà bisogno di realizzare che il suo percorso con la propria persona non è ancora finito, e questo impedirà lo sviluppo di certe relazioni, ma è corretto anche questo, perché parliamo di un* diciassettenne. Non sarebbe complet* nemmeno se fosse una persona cis. Cal è doppiamente interessante perché non è attivist*, non alza la voce per la sua comunità, non si mette nemmeno in gioco, non vuole nemmeno litigare un pochino. Non c'è bisogno che ogni singola persona appartenente ad una comunità lo sia, e Cal non vuole. Vuole divertirsi, farsi tante canne, fare le gare di corsa, godersela. Accetta di mettersi in gioco un po' di più solo quando la situazione si aggrava al punto da compromettere il suo benessere, ma quello non è più attivismo, è sopravvivenza. 

Viv, la head girl della scuola, è nera. Il suo essere nera è assolutamente rilevante nella sua vicenda, quindi viene trattato di conseguenza. La sua storia in particolare è molto bella perché a noi spettatori grandicelli è chiaro che il suo ruolo ruffiano e che appare detestabile sia invece solo il frutto di una grande necessità: Viv è una persona che deve combattere più degli altri per avere accesso ad un'istruzione di un certo livello, e deve scendere a compromessi. Lo sa, lo ammette, e le persone in torno a lei devono accettarlo, anche se a volte è difficile. 


Violenza


Nella scorsa stagione la tenerissima Aimee è stata vittima di una molestia. La serie, che è intelligente, non se ne è dimenticata, e il tema ritorna, perché la violenza si porta appresso delle conseguenze che durano nel tempo. Aimee, nota in tutta la scuola per la sua passione per il sesso, non riesce più a farsi toccare dal suo ragazzo. 

Quello che le è successo è stato così d'impatto da cambiare profondamente la sua persona, al punto che, come le dice chiaramente Jean durante una sessione della terapia a cui Aimee accetta di sottoporsi, potrebbe non tornare mai più quella di un tempo. Posto che nel cambiamento non c'è nulla di negativo, quello che attraversa Aimee è particolarmente interessante da vedere perché passa in primo luogo dalla conoscenza di sé. Se prima la sua sessualità era libera e spensierata, ora quello che le importa è di conoscersi, amarsi, riconoscersi come individuo anche senza la componente sessuale che prima la caratterizzava. Conoscere il suo corpo di donna, le sue caratteristiche, e le sue diversità la arricchisce, la rende più matura, e anche se questo non cancellerà mai quello che le è successo di sicuro le aprirà molte porte. Non vedo l'ora di vederla nella prossima stagione, le voglio bene come se fosse una sorellina minore e mangerei volentieri uno dei suoi cupcake con le vulve.


Genitori e vita adulta


Jean in questa stagione è strepitosa. Parliamo di una donna di 48 anni che resta involontariamente incinta e che deve portarsi a casa le conseguenze di una gravidanza inaspettata. Una su tutte la violenza ostetrica: in una scena agghiacciante le viene ripetuto, evidenziato, sottolineato fino allo sfinimento che forse una gravidanza a quell'età ce la potevamo anche risparmiare. Quando osa alzare la voce per protestare viene fatta passare per una Karen qualunque che vuole parlare con il tuo manager. Per fortuna il suo è un personaggio fortissimo, pieno di determinazione e consapevolezza (perché lei sì, quel percorso che Aimee sta ancora facendo l'ha già fatto), che si mette in costante discussione. 

Adoro che sia rappresentata finalmente una donna che non ha alcuna voglia di una famiglia tradizionale. Ama suo figlio, è una madre presente e anche spesso opprimente, ma non ha bisogno di un uomo con cui condividere la routine. Sta bene sola, con i suoi spazi e i suoi tempi, non ama la condivisione, non accetta i compromessi. L'ipotesi della famiglia tradizionale la spaventa, non la attrae. E finalmente.


Ma soprattutto, è di Ruby che vorrei parlare. Ruby, la Regina George della serie, in questa stagione è me da piccola e quindi me la porto nel cuore con tutto l'istinto di protezione di cui sono capace. Sfrontata, arrogante, ha costruito un'immagine di sè a protezione di quell'aspetto della propria vita che non può cambiare: la famiglia. Arriva da un contesto che la fa vergognare, e mostrare quello per lei è la forma massima di esposizione. Quando la più grande fragilità che hai arriva dall'ambiente che dovrebbe essere quello di forza, tu lo proteggi nei modi che puoi, spesso creandoti un'immagine che non ti rappresenti, proprio per tenere tutto lontano da lì. Perché tu sei e vuoi essere altro. La mia, di immagine, è crollata crescendo, ma Ruby è più tosta di me. L'ho adorata in questa stagione, lei e il suo strampalato papà.

Altrettanto interessante è il racconto che si fa del rapporto di Maeve con i soldi. Non sono una bella cosa, ne girano molto pochi, ma non si può chiedere aiuto. Anzi, lo si considera offensivo. Questa serie andrebbe mostrata nelle scuole proprio perché insegna come trattare il diverso anche quando il diverso è la bellissima brillante Maeve. Non si dà aiuto non richiesto, non si interviene per altri, non ci si intromette: le persone povere hanno una loro dignità, una capacità decisionale, una testa propria. Grazie dell'aiuto, ci pensiamo da soli. Anche perché quello che la serie fa è mostrare quante palate in faccia si prendano da chi l'aiuto lo deve, ovvero la società, qui nella figura della preside. Lo dice con autorevolezza, Maeve, si impone, si arrabbia, si incaponisce, e accetta aiuto solo quando è pronta ad aprirsi ad esso, non prima e non dopo. Questo è sacrosanto e non se ne parla mai abbastanza: l'aiuto non richiesto è carità, e quella non fa bene a nessuno.


Io voglio a Sex Education un bene grande, perché non è inclusiva, si include solo se si pensa di avere l'autorità di "introdurre" qualcuno in un mondo che si percepisce come proprio: Sex Ed è di tutt*, per tutt*. 



venerdì 23 luglio 2021

La trilogia di Fear Street

11:57

 Con il neonato progetto Twitch faccio un pochino di fatica a vedere quanti film vorrei, perché sono solo all'inizio, devo organizzarmi e imparare a gestire le cose nuove. Quindi quando è uscito il primo capitolo di Fear Street, su Netflix, me lo stavo per far scappare. Sia sempre lodato Erre, che invece ha voluto vederlo, perché, e lo dico subito così non siete costretti a leggere tutta la pappardella che temo finirà per essere questo post, quella di Fear Street è la saga migliore degli ultimi anni.


Adesso elaboro con calma.



La saga è composta di tre film, ambientati in tre anni differenti: 1994, 1978, 1666. Ripercorre, partendo dal più recente e andando indietro nel tempo, la storia di Sarah Fier, una donna accusata di stregoneria che dopo la sua morte è entrata nella leggenda, diventando parte del folklore della cittadina di Shadyside. A Shadyside le cose da allora non vanno molto bene: i cittadini hanno vite complesse e piene di problemi, e ogni tanto qualcuno impazzisce e commette delle stragi. Dare la colpa all'influenza di Sarah è fin troppo facile. Deena e i suoi amici sono solo gli ultimi ad essere toccati dalla maledizione della strega, e non hanno nessuna intenzione di lasciarla vincere.


Si parte in questo viaggio a Shadyside nel 1994. Laddove gli anni scorsi sono stati per il mondo dell'intrattenimento un viaggio nella malinconia degli anni '80, ultimamente abbiamo scelto di tornare al decennio successivo, e finalmente l'ondata nostalgica tocca anche me, che nel '90 ci sono nata. Il primo film non è solo una bella passeggiata nel viale dei ricordi, però. Il primo film prende Scream e fa, 30 anni dopo, la stessa cosa: riprende in mano le carte di un genere intero e le rimescola, dà loro nuova luce, partendo proprio dal film che queste stesse carte le aveva rivoluzionate nel '96. Non si tratta solo di un omaggio ad un film tanto amato, ma è anche questo. Di Scream c'è tutta la struttura - persino elementi come la telefonata all'attrice più famosa che muore subito dopo o il personaggio esperto che spiega agli altri come vanno le cose - ma soprattutto c'è la voglia di dare nuova sostanza, di rinvigorire qualcosa che nel mio cuore so non morirà mai, lo slasher. Il primo film attualizza, pur ambientando 30 anni fa, elementi che sono una costante e li approfondisce, li arricchisce di nuovi spunti e li rende fruibilissimi anche a chi di slasher non ne abbia mai visto uno prima. 

C'è sì l'assassino mascherato che uccide i giovani, ma viene arricchito dall'elemento della maledizione, la sua responsabilità viene "sollevata". Chi sta sotto la maschera perde completamente di importanza, il killer non è più al centro dell'attenzione. Allo stesso modo, la final girl è rivoluzionata: non c'è la candida ragazzina virginale che sopravvive tirando fuori doti che non sapeva di avere, ma c'è una giovane donna fortissima e determinata, che la vita ha preparato da sempre a questo momento. Ha genitori assenti e la responsabilità di un fratello minore, vive in grandi ristrettezze e ha il cuore spezzato. Soffre ma non si piange mai addosso, anzi: è incazzata nera. E il suo essere così indomabile la rende la sola persona in grado di esplorare per davvero la storia di Sarah Fier. L'ho già detto nella IgTv dedicata ai film ma lo ripeto qui: che gran nome questa strega.


Esplorare la storia significa dover andare indietro nel tempo, e infatti il secondo film ci accompagna nel '78, anno in cui si è tenuta un'altra delle tristemente note stragi di Shadyside. Questa volta siamo in Venerdì 13. Siamo nel campo estivo, con animatori adolescenti irresponsabili e un killer che li spaventa. Di nuovo, ci sono tutti gli elementi che conosciamo e amiamo, ma con un twist in più. Questa volta abbiamo un approfondimento dei personaggi notevole, che potevamo scordarci quando il centro della storia erano Jason e il suo fascino. Qui abbiamo relazioni che vengono raccontate, abbiamo personaggi che si prendono il tempo di parlare e confrontarsi, abbiamo il loro passato che incombe su di loro e li rende quello che sono, abbiamo la maledizione della cittadina che ha su ognuno di loro un'influenza diversa. Anche qui il killer è irrilevante, se non nella persona della strega. Chi compia effettivamente i delitti conta poco, se non nell'aspetto della relazione con gli altri personaggi. (Difficile dire qualcosa senza fare spoiler!) 

Anche questa volta vengono scardinati i pilastri della terra scrivendo una final girl tostissima, irrispettosa, dispettosa, vivace, ribelle. Vittima di bullismo furioso ma che non vi soccombe mai, realista, ben piazzata con i piedi al suolo e sempre attenta a quello che la circonda, la meravigliosa Ziggy è un personaggio indimenticabile. La vita l'ha messa alla prova continuamente, ma lei è sempre stata attenta al prossimo (Nurse Lane su tutti, per chi ha visto i film), di cuore genuino ma non ingenuo. Un personaggio che spezza i cuori. 

Ziggy sarà quella che aiuterà Deena a fare un passo in più verso Sarah, in questo percorso tutto al femminile in cui ognuna delle protagoniste è di grande potenza.


Sarah la conosciamo effettivamente solo nel terzo capitolo. Prima è una leggenda, l'uomo nero delle storie dei bambini di Shadyside. Il terzo film fa l'inevitabile: le rende giustizia. Ci allontaniamo dallo slasher per diventare un film storico, in cui i volti delle nostre protagoniste diventano quelli dei personaggi delle leggende che stanno ricostruendo (gran scelta). 

Non farò in alcun modo spoiler sul terzo film perché sarebbero spoiler sulla saga intera, ma la riabilitazione del personaggio di Sarah è non solo perfettamente coerente con tutto quello che è successo prima, ma in modo autonomo anche una grande storia, dolorosa, reale e molto forte.


La degna conclusione di una saga splendida, che chiude tutto quello che era stato aperto in modo esemplare. L'ultimo film è un tassello fondamentale, che mette tutto in una luce nuova. Le storie delle tre donne protagoniste sono forti e di grande impatto, ma non dimenticano mai di essere inserite in teen horror, che le rende quindi anche di grande intrattenimento. L'elemento gore c'è e fa sempre piacere, ci sono gli omicidi creativi, c'è la (presa in giro della) demonizzazione del sesso, c'è l'amicizia, l'amore, l'assenza degli adulti e ovviamente una fortissima componente queer, che non è un elemento narrativo (non ci sono coming out, non se ne dibatte mai se non con un personaggio marginale) se non nell'ultima parte della saga, che diventa un horror ma anche un dramma lesbico in costume. 


Non è facile salutare i personaggi di Fear Street, a cui si vuole così bene. Il teen horror, da qui, ha una faccia nuova e non vedo l'ora di vedere tutti i modi in cui la saga di Leigh Janiak influenzerà quello che deve ancora venire. Sarà un viaggio divertentissimo e sanguinolento.


domenica 3 gennaio 2021

Parliamo di Sanpa

18:45

 Sono reduce da un chiusone sulla nuova chiacchieratissima docuserie su Netflix, e figuriamoci se non potevo avere così tante opinioni da scriverci un post sul bloggetto. 

E infatti eccolo qua.

La docuserie, uscita solo pochi giorni fa, dura 5 episodi e attraverso una serie di interviste vuole riaccendere i fari sulla questione San Patrignano, la più famosa comunità per tossicodipendenti italiana.




AMMESSO ABBIA SENSO FARNE UNO IN CASI DI DOCUMENTARI, SPOILER ALERT


Una consueta ma necessaria premessa: le mie sono le opinioni di una persona nata nel 1990, che ai tempi d'oro e degli scandali della comunità era o ancora insieme agli angioletti in cielo o troppo piccola per capirli, e che ha anche l'enorme privilegio di non avere mai avuto contatti diretti con il mondo della tossicodipendenza ma solo con altre dipendenze. Questo fa sì che io abbia un approccio quanto più possibile neutrale: non conosco le persone coinvolte e non ho alcun ricordo personale del periodo, quindi tutto quello che so l'ho appreso dalla serie. 

Tanto per dire due parole sulla serie in sé, ché tanto poi lo so che finirò a parlare di tutt'altro come mio solito, a me è molto piaciuta. Trovo che abbia fatto la saggia scelta di intervistare ogni parte in causa, tra quelle disposte a dire qualcosa, anche quelle meno piacevoli. Anche quelle che si auto umiliano ogni volta che aprono bocca (un caro saluto a Red Ronnie che ci segue da casa), anche quelle che obiettive non lo potranno essere mai, anche quelle scomode. Si fanno parlare tutti, e si ha la ancor più saggia accortezza di dire quali persone, invece, hanno preferito non parlare. Il classico stampo americaneggiante senza narratore ma solo con interviste e immagini di repertorio mi piace, è un formato che guardo sempre volentieri e che mi coinvolge. 


Si parla, tanto per dare un minimo di contesto a chi non abbia aperto internet in questi giorni, della comunità del riminese, della sua fondazione nel 1978, della sua crescita e soprattutto del suo fondatore, Vincenzo Muccioli.  La comunità nasce per ovviare ad un gigantesco problema sociale che negli anni '70 piegava il paese: i giovani si drogavano e nessuno li aiutava. Viene sottolineata da ogni parte in causa la totale assenza dello Stato, il deliberato ignorare l'immensità di un problema che stava sotto gli occhi di tutti. Sanpa nasce per coprire questo buco. Il suo fondatore, Muccioli, mette l'azienda agricola e gli allevamenti di famiglia a disposizione del sociale, chiudendosi completamente proprio a quella società. Chi entra a Sanpa ci resta, e se non ci vuole restare viene fatto restare. Questo solo all'inizio del primo episodio. 

La prima parte della serie si concentra, quindi, sulla droga e i drogati. Spesso chiamati (con la scusa del "Così erano visti dalla società") feccia, ai tossicodipendenti viene riservato un trattamento che visto oggi è raccapricciante. Non persone ma malattie, curate a forza di sberloni (ma dati con l'amore di un papà, s'intende), legate in luride cantine e trattate con un'infida superiorità mascherata da compassione. I poveri drogati, di cui nessuno si occupava, vengono chiamati da Muccioli figli, vengono ripescati se tentano di andarsene, vengono guardati con quel canonico sguardo che si rivolge al diverso. 

Quando poi i primi scandali iniziano ad emergere, la catena di orrori che la serie pian piano sviscera è una discesa verso l'inferno. E non intendo necessariamente le cose accadute all'interno della comunità, o comunque non solo quelle. A urtare è soprattutto l'opinione pubblica, il ruolo della stampa, la cieca ottusità di chi non vuole vedere. L'uomo tanto bravo ad irretire i più deboli con le parole si sentiva legittimato a fare quello che più gli aggradava delle vite dei giovani che ospitava anche perché (o forse proprio perché) erano le loro famiglie a chiederlo. Sono innumerevoli le interviste a genitori disperati che lasciano di proposito che ai loro figli venga fatto di tutto purché escano dalla dipendenza, e sta qua il primo step dell'orrore. Sfruttare persone nel pieno della sofferenza, della disperazione, ed estorcere loro interviste volte a proteggere l'immagine di un supposto santone (con tanto di esoterismo e imposizione delle mani, ignoreremo questo particolare) è becero e in cattiva fede. Chiedere a genitori che spesso non hanno le competenze necessarie, ma soprattutto a volte non hanno la lucidità di pensiero necessaria, se sarebbero disposti a vedere il loro figlio segregato piuttosto che morto è una delle più grandi bassezze di cui l'umanità è capace. Prendere a piene mani la disperazione altrui per sentirsi legittimati ad abusare del proprio potere è squallido, infame, vigliacco. 

E quindi via, il primo scandalo va sotto il tappeto. L'immagine di Muccioli è sana e salva, una piccola promessina al giudice di non farlo mai mai più e Sanpa non si scalfisce nemmeno. L'importante sono i numeri, i numeri dei ragazzi salvati, dei giovani figli di Muccioli che escono dalle catene (quelle sì, signora mia, che sono catene che fanno male) dell'eroina ed ecco un bel sorriso tornare sulle labbra dell'opinione pubblica.


Già questa prima metà della serie mi aveva fatto inveire contro la televisione, vi dirò. Non era nulla rispetto a quello che sarebbe arrivato dopo, ma già io mi stavo scaldando. Il ritratto di Muccioli che ne emerge è quello di un uomo così concentrato su se stesso che anche durante il funerale di uno stretto collaboratore morto di AIDS all'inizio dell'epidemia pronuncia solo le parole io, io, io. Sembra davvero avere quel classico autoamore che hanno spesso le persone così annebbiate da se stesse che si convincono di fare del bene quando invece quello che stanno facendo è solo lucidare la propria immagine allo specchio. Non fraintendetemi, io sono certa che tantissime persone siano uscite da Sanpa con la vita rivoluzionata e, soprattutto, salvata, penso solo che a Muccioli la sola persona che importasse fosse se stesso. 


Dalla seconda metà, però, ci si dimentica della droga, perché tutto quello che gira intorno a Sanpa diventa un immenso circo, e ci si scorda perché si è lì. Iniziano a girare tanti, tantissimi soldi, gentilmente offerti dalla benvoluta famiglia Moratti, si comincia a parlare di violenza, giri illeciti di denaro e animali e, naturalmente, morti. San Patrignano cresce, e cresce, e cresce, fino a diventare una cittadina autonoma. Si esce? Ma chiaro che no, e se ti azzardi a prendere un caffè al bar sono vessazioni e umiliazioni. A che serve uscire? Fuori c'è il male tentatore, e dentro hai tutto quello che ti serve. Ricorda Ballard? Ricorda Ballard. 

Osi lamentarti del cibo? Non puoi, perché come viene chiaramente detto dal nostro Muccioli è che non puoi chiedere vengano esercitati diritti perché, e cito, "Ma quali diritti?" 

Da storia di tossicodipendenze diventa la più miserabile storia di potere e del suo costante e crescente abuso. Il capo che gira in Jeep per il suo territorio per controllare che sia tutto ok, salvo poi dichiararsi estraneo ad ogni fatto quando questo sia di natura criminale, regole ai limiti del paradossale, caratteristiche sempre inquietantemente più simili a quelle di una setta che a quelle di una comunità di recupero. Persone e personalità completamente annullate in virtù di un supposto bene superiore che qualcuno si permette di decidere per te, traumi costanti.

E infine, il degenero. La comunità diventa talmente grande che Muccioli non può più controllarla interamente da solo e inizia a delegare, ma basta studiare un minimo la storia per sapere che quando quello che deleghi è potere assoluto e incontrollato non fai che moltiplicarne la pericolosità, soprattutto quando è ai danni di persone che non hanno la benché minima possibilità di reagire. Intendo proprio sbarre alla finestre, gente ammanettata al letto e documenti sequestrati. Si arriva a nascondere alle persone informazioni fondamentali sul proprio stato di salute, un fatto di eccezionale gravità di per sé, con l'assurda aggravante di accadere nel bel mezzo di un'epidemia che negli anni '80 uccideva una persona alla volta una generazione intera. La parte sull'AIDS è raccapricciante. Ecco che allora le donne iniziano a venire stuprate (non parlerò di quello che dice Muccioli a riguardo, è così dannoso che ho quasi il sospetto che io lo avrei tagliato dal documentario, anche se aiuta a delineare l'immagine dell'uomo), le persone sono ancora più spesso malmenate, tutta la posta viene controllata (come in guerra, per intenderci), e finisce nell'unico modo possibile: ci scappano i morti. 

Due suicidi (o supposti tali? lo pensiamo tutti, dai), e un omicidio vero e proprio. Non un omicidio commesso tra gli utenti della comunità, ma ai danni di uno degli utenti commesso da uno dei responsabili. Dice Red Ronnie, miserabile rimasuglio di umano, che un solo omicidio in 30 anni di vita di una cittadina non sorprende in negativo, ma in positivo, perché è un miracolo!!!

Ma San Patrignano non è una cittadina. Non è semplicemente un paese, dovrebbe essere un centro di solidarietà, di supporto a persone in difficoltà, e proprio in un centro del genere è assolutamente imperdonabile e inqualificabile che il potere sia dato in mano a persone che lo esercitano abusando di una violenza ingiustificata e ingiustificabile, dove le botte e i soprusi erano all'ordine del giorno e dove nessuno faceva nulla per interromperli. I giovani non solo entravano a Sanpa nel momento peggiore delle loro vite, in cerca di un disperato aiuto, ma dovevano anche subire le piccolezze di piccoli uomini che si sentivano così tanto grandi. Nessuno, tanto per capirci bene, ha mai pagato nulla. 


Parlano nel documentario persone che ancora oggi amano profondamente la sua immagine, primo tra tutti il figlio, e persone che con il tempo hanno trovato il modo e la forza di allontanarsi da una persona che a tutti gli effetti erano arrivati a percepire come pericolosa. Oggi Muccioli è morto, quello che resta è la rabbia di chi non ha mai avuto né la verità né, figuriamoci, giustizia. Dall'altro lato, chi non ha mai voluto vedere continua a difendere posizioni indifendibili, mostrando anche a distanza di anni zero empatia e zero rispetto per il prossimo. 
Il documentario si chiude in modo molto infelice, con un chiusone che non fa altro che definire ulteriormente i personaggi ritratti. Muccioli muore di un male misterioso, in brevissimo tempo, e a nessuno viene detto di cosa si tratti. Girano voci, però, come girano ovunque, e sembra davvero che anche lui avesse contratto il virus dell'HIV. Non sorprende, ad un certo punto nella comunità erano positivi due terzi degli ospiti. Insieme a questa voce, però, gira anche quella della presunta omosessualità di Muccioli, e di una presunta relazione con quel collaboratore morto di AIDS che vi dicevo qualche paragrafo più su. Forse la sola persona legittimata ad avere qualcosa da dire a riguardo sarebbe stata la moglie, unica persona a cui poteva importare della sessualità del marito, che però è mancata lo scorso anno. Invece l'opinione che sentiamo è quella, di nuovo, di Red Ronnie, che grossomodo dice che avendo finito le cose da criticare a Muccioli, i suoi detrattori adesso si siano inventati che era fr*cio. (La parola l'ho censuata io perché non è accettabile, figuriamoci se Red Ronnie si poteva fare sto riguardo.)


L'argomentazione di coloro che Muccioli lo hanno sostenuto è una sola, per tutte e 5 le puntate: ha aiutato tante persone.

E a me, oggi, il fine che giustifica i mezzi non solo non basta, ma non va più giù. Nemmeno se il fine da ottenere è la lotta alla droga. 

Meno male che per un po' si è visto Pannella, va là, che nella prima puntata si vede Montanelli e credevo che avrei vomitato.

lunedì 23 novembre 2020

The Crown - stagione 4

12:16

Avevo scritto un lunghissimo post su Megan is missing che ho poi deciso di prendere e cestinare. Magari ne farò un riassunto su Letterboxd, mia croce e delizia. Se vi andasse, qua di fianco c'è il link al mio profilo, spesso scrivo qualcosa su quello che sto vedendo. Il punto è che faccio ancora fatica ad avere un'idea precisa sul film e quindi siccome avevo comunque voglia di scrivere un post ho pensato di farlo su una cosa bellissima: The Crown.

Ho scritto post anche sulle stagioni precedenti e lo ripeto con tutto l'entusiasmo che ho: è una serie bellissima che vorrei guardaste tutti a prescindere dal vostro interesse per i reali inglesi. Che loro siano persone reali (nel senso che esistono, non nel senso della nobiltà) fino alla scorsa stagione contava poco e nulla. In questa stagione cambia tutto, e poi ne parliamo, però non cambia quello che penso: è un lavoro meraviglioso.





La quarta stagione ci porta negli anni '80, e negli anni '80 succede la cosa che per me cambia tutto l'approccio alla serie: arriva Lady Diana. Questa donna si è presa un posto così grande nei cuori delle persone che quella distanza che poteva esserci con le prime stagioni viene qui completamente annullata. Mia madre (casalinga della provincia di Cremona) ha pianto guardando i funerali di Diana, me lo ricordo come fosse successo ieri, e non solo per la presenza e la canzone del nostro venerato Elton John. Era proprio commossa come se fosse morta una sua conoscente. Io ero troppo piccola e non ho vissuto questo 'affetto' che il mondo aveva per lei, però vi basta fare un giro tra i commenti su app come TvTime. La gente in questa stagione è impazzita. 

Ora, la serie lo sapeva bene cosa sarebbe successo, perché è una serie scritta da persone intelligenti. Il modo in cui Diana è presentata è perfetto, la metafora del cervo è stata perfetta, l'equilibro che sono riusciti a trovare tra quello che la gente voleva - un primo piano sulla relazione che ha fatto parlare per 15 anni il mondo - e il senso della serie, ovvero ripercorrere la storia della Gran Bretagna attraverso gli occhi di chi vi regna. Elisabeth non è mai messa in ombra da Diana, nella serie, perché sono stati in grado di trovare il modo giusto di raccontare entrambe, ma basta un dialogo tra Philip e Diana a ricordare come funzionano le cose: tutto è sempre e comunque in funzione della Corona. 

Questa stagione è stata per me dolorosissima. Se prima di oggi non avevo mai bene compreso l'appeal di Diana sulle persone, oggi è un po' più facile. Sempre ricordando che si parla di una serie tv e non della realtà, il ritratto della Principessa che viene fatto è straziante. Una ragazzina che dal giorno alla notte si è trovata in una situazione straordinariamente più grande di lei, in un mondo sconosciuto e in cui non le era concesso di essere quello che avrebbe voluto essere. Vedere i sogni romantici di una ragazzina di manco vent'anni distruggersi in così poco tempo è stato tosto. Vederla sbattere fortissimo i piedi per stare a galla lo è altrettanto, e vedere le conseguenze che quello che ha vissuto hanno avuto sul suo corpo e sulla sua mente è stata la batosta definitiva. Ho pianto tanto, in caso non l'avessi fatto intuire. Diana è così umana che non riesce a mescolarsi in quella rigidità di sentimenti e di vita che la Corona impone. E vederlo succedere è davvero doloroso perché la serie ha da sempre messo in chiaro come vengono vissute dai reali le persone che non sono in gradi di contenersi. Margaret da quando è nata combatte contro la vita che le viene imposta, Charles ci ha provato, ma era meno forte della zia. Edoardo VIII ha dovuto fare una storica rinuncia per colpa della famiglia. Diana si è trovata in questo mondo così severo, non ci è cresciuta. Laddove tutti gli esempi citati su erano ben consapevoli di quello che li circondava, perché ci erano cresciuti, lei si è lanciata nella gabbia del leone senza sapere che il leone non era ammaestrato. La serie ci dice che lei, in realtà, nella vita avrebbe sempre voluto essere più di quanto fosse, e di certo lei non arriva nella suddetta gabbia del leone spaventata. Ci ha pensato la vita a ridimensionarle gli entusiasmi. 


Certo, nello stesso periodo la Gran Bretagna stava assistendo anche all'ascesa al potere di un'altra donna che oggi ricordano ancora tutti: la Thatcher. Ecco, questo forse in effetti spiega perché cercassero consolazione nella principessa Diana. Io di brave attrici in questa serie ne ho viste tante, vi ricordo che Olivia Colman è la mia attrice preferita della vita nonché persona preferita dello showbiznez, ma questa stagione ha proprio deciso che voleva mettere il carico da 11 e vincere la briscolata. Quella pazzesca di Gillian Anderson fa la Thatcher, e come la fa bene lo sa solo lei. Di una bravura incredibile. Ora, io sono una bimba della Anderson da Sex Education (per favore, se non lo avete visto lo guardate? è bellissimo lo amo tanto), non da X-Files che - ehm - non ho mai visto, però giuro che il mio amore è recente ma sincero. Ma quanto si può essere bravi? Che lavoro incredibile ha fatto sulla voce? Difficile odiare la Iron Lady se a farla è lei. Poi si odia comunque, cosa vuol dire, però viene dopo, ecco. 

Parliamo anche di Emma Corrin che fa Diana, quando volete. Sta ragazza è del '95, un talento meraviglioso di cui spero sentiremo parlare tantissimo perché a volte la somiglianza fa quasi impressione. 

Le donne si confermano il cuore della serie, anche in un sistema dove sono gli uomini vecchi con i capelli grigi a comandare. 

Poi va beh la sottoscritta deve avere un problema con tutti gli interpreti di Philip perché laddove il mio amore per Matt Smith è immutato e immutabile, Tobias Menzies è bravo, eh, non gli si può dir niente, ma non è il motivo principale per cui lo si nota, ecco. Era una info inutile ma valeva la pena di essere condivisa. 


The Crown è sempre, sempre, sempre una gioia. I colori, la musica, i paesaggi, gli abiti (!!!!!!!gli abiti!!!!!!), l'accuratezza, i suoi eccellenti interpreti, l'intelligenza della scrittura, la pacatezza che riesce sempre e comunque a trasmettere, anche quando parla di cose tutt'altro che pacate. Una serie deliziosa, che adesso vorrei ricominciare da capo perché mannaggia a sti reali maledetti e crudeli, mi mancano tutti. 

Anche la Thatcher.

sabato 17 ottobre 2020

The haunting of Bly Manor

11:54

Non starò qui ad ammorbare chi legge con l'ennesima intro su quanto Mike Flanagan sia uno dei registi che amo di più al mondo e su quanto The haunting of Hill House sia per me la cosa migliore più grande mai accaduta al mondo delle serie tv. Per questo c'è un post specifico che trovate qui.

La sola cosa che è importante dire è che, nonostante le mie paure siano sempre state ampiamente smentite dal regista di cui sopra, mi sono approcciata alla visione della seconda stagione della serie migliore della storia con una bella fetta di timore. Era The haunting ma non era la mia storia, non erano i Crane, non era Hill House. Non so come avrei reagito se non mi fosse piaciuta.

Facciamo quindi una recensione breve: sebbene Hill House mantenga nel mio cuore un posto tutto suo dovuto forse al suo essere la prima (o forse al suo essere perfetta, chi lo sa), Bly Manor è stata l'ennesima conferma che io questi timori non li devo avere mai più, perché il cuore e la testa di Flanagan continuano a parlare ai miei e anche questa volta ha fatto la magia.




Per la recensione intera mi sa che ci sarà da mettersi comodi. Farò il possibile perché sia senza spoiler.

Piccolo accenno di trama per chi non sapesse di cosa di parla: la serie è tratta da Il giro di vite, di Henry James, e racconta dell'arrivo di Dani a Bly Manor come ragazza alla pari. Dovrà occuparsi di Flora e Miles, due bambini rimasti recentemente orfani. Con lei nella casa ci saranno il resto dello staff e qualche fantasma.

Ho provato diverse volte a scrivere questo post, perché ci penso da ieri sera, quando ho visto l'ultimo episodio. Eppure le parole che mi vengono in mente quando parlo di Flanagan e dei suoi lavori - anche se in questa stagione il suo ruolo è "solo" di showrunner, perché di episodi ha diretto solo il primo - sono sempre le solite: delicatezza, poesia, intimità, profondità. Alla lunga scrivere sempre le stesse cose diventa ridondante, persino per me che mi ripeto in continuazione. 

Però sto provando a mettere a fuoco cosa di lui io ami così profondamente, per imparare ad argomentare meglio quando scrivo i miei post, ed è difficile. Perché Bly Manor, tanto quanto Hill House prima di lei, non tocca la mia parte razionale. Si tratta di una serie con un'estetica che incontra il mio gusto (costumi, luci, ambienti, messa in scena, per i miei occhi è stata estasi costante), con una scrittura superba che ho ammirato scena dopo scena, con una bella regia coerente con quella del suo showrunner, con grandi interpreti. E queste cose sono certamente fondamentali per il giudizio di un prodotto del suo tipo. Flanagan ricerca sempre una raffinatezza nel comparto tecnico che anche qui si è fatta notare. Però il punto per me non è quello, e da quando ieri sera ho spento la tv rifletto su come mettere nero su bianco il modo preciso in cui mi colpisce così forte.

Il punto è sempre stato il cuore. In un momento in cui escono mille serie al giorno e si punta sempre al prossimo grande successo che farà vendere mille magliette e creerà milioni di cosplay tutti uguali al Lucca Comics (nessun riferimento a case di carta è intenzionale), Flanagan rallenta i ritmi. Non ricerca la frenesia dell'azione, l'iconicità e la riconoscibilità del suo prodotto. Lui ha storie di persone da raccontare e sa che per fare questo serve altro. Si prende il lusso della lentezza, pur essendo in grado di non creare mai storie noiose, perché, come dicevo su, sa scrivere come nessun altro. Usare la lentezza è quello che serve per creare la quotidianità. Ed è quando ricrei una quotidianità reale, con cui si empatizza così tanto, che ci sbatti con violenza dentro il cuore e la testa dei personaggi che stai portando in scena. L'amore reale che si porta a casa per queste persone non nasce nel momento in cui rischiano la vita l'una per l'altra, o quando affrontano fantasmi spaventosi. è un sentimento che si sviluppa quando assaggiano tutti le creme che Owen ha fatto e decidono quale sia più buona, è quando si prendono una pausa dal lavoro e si fermano a bersi un gin tonic e a fare del sano gossip. Li ami un po' di più quando si danno il primo bacio e non va tutto come nelle favole, quando sono spaventati, quando litigano. Quando si scambiano parole quotidiane, quando sono persone normali, con amori che fanno male, con gelosie, con piccole discussioni della vita di tutti i giorni. E per raccontare questo serve tempo. Servono 9 episodi da un'ora l'uno (e sa solo dio se ne vorrei di più) per far sì che alcune persone passino da sconosciuti a colleghi, ad amici, a famiglia. Serve morbidezza nel racconto perché alcune persone capitate lì per caso diventino l'anima intera della casa che amano. L'amore che inevitabilmente si prova per i bambini diventa collante e infine l'amore permea la casa, ed è così forte l'unione che ne nasce che l'ultimo, meraviglioso episodio ce lo conferma. Non si esce mai da quei legami qui, quelli nati con le piccole cose, con la vita condivisa. 

E noi, che lo vediamo sullo schermo, siamo con loro, con il cuore e con la testa. Siamo insieme al meraviglioso Owen quando soffre e ammette cose difficili e beve perché tanto cosa altro può fare? Siamo con Hannah che deve convivere ogni giorno con una vita nuova perché la sua le è stata stravolta. Siamo con lo zio Henry, quando con una sola battuta è stato in grado di ribaltare la sua immagine e spezzarci il cuore. E siamo con i bambini, che sono piccini e pieni di problemi, ma che sono più grandi di tutti, perché hanno segreti e li tacciono solo per il bene di quei grandi che dovrebbero nasconderli a loro, i segreti.

Il male, a Bly Manor, ha la forma del trauma, del dolore che ha fatto fermentare il germe cattivo. Non ci sono cattivi e basta, ci sono persone rotte dentro che non sanno come fare ad essere altro che così. Non ci sono nemici, non ci sono vincitori. Quello a cui assistiamo è il frammento di alcune esistenze e, sebbene da un punto di vista strettamente tecnico i tempi siano perfetti così, è ogni volta un dolore non poterli accompagnare oltre. Vedere Flora diventare grande, vedere Owen guarire dal suo mal di cuore, vedere Jaime felice, vedere la vita di tutti andare avanti. Mi pare evidente che la serie la ricomincio subito, ma mi fermerò sempre lì, e sarà sempre una sofferenza.


Il modo in cui Flanagan ha rivestito di un amore così profondo l'orrore mi lascia ogni volta senza parole. Tra gli appassionati si sa che l'orrore è cosa ben più ampia dei cinemacci di sangue e squartamenti che gli vengono spesso affibiati come unica caratteristica, ma Flanagan lo sta facendo su Netflix. Non in un cinemello di nicchia, ma sulla più grande piattaforma di streaming del momento lui sta  mostrando a tutti che quella poesia qua è possibile. Ci sta dicendo che il modo migliore per parlare di sentimenti è quello sincero, non artefatto, non costruito a pennello per ricalcare un nostro immaginario. Usa un linguaggio così vicino a noi che i nostri sentimenti si fondono sempre alla perfezione con quello che vediamo sullo schermo. Mi dispiace non essere in grado di evitare i consueti aggettivi che gli riservo, quindi li metto tutti alla fine e tutti insieme, per sfogarmi di averli trattenuti finora: Bly Manor è l'ennesima storia di Flanagan che mescola l'orrore con la poesia, fondendoli con la maestria di chi questo cuore ce l'ha sinceramente e non costruito solo per fare un buon prodotto. In questo caso c'è anche l'aggiunta di un magnifico racconto d'amore, e se aveste qualche dubbio ve lo sciolgo subito: è dolcissimo nel modo potente e mai mai mai mai mai stucchevole in cui solo lui poteva esserlo. Emozionante sempre, dolce, elegantissimo, magnetico.

Anche questa volta, Mike Flanagan è stato il più bravo di tutti. 

The rest is confetti.

martedì 4 agosto 2020

Chiacchieratina sul True Crime

10:19
Qualche tempo fa ho letto qualcuno su twitter dire che il true crime è la pornografia delle donne bianche. Non sono certa di poter dissentire.
Quel che è certo è che ultimamente ho fatto incetta di prodotti su questo genere: podcast, serie tv, libri..e ho pensato di metterli tutti insieme per parlarne.
Il trigger warning necessario è che si parla di storie vere. Magari in qualche caso romanzate o adattate al media in cui vengono affrontate, ma sono persone reali, casi giudiziari reali, e capirei se la cosa potesse in qualche modo risultare indigesta. Se si è empatici il minimo sindacale per potersi definire umani spesso è una sofferenza.
Perché farlo, allora, si chiederebbe il saggio.
Eh, quando potrò permettermi di andare in terapia ve lo saprò dire.

Photo by Tingey Injury Law Firm on Unsplash

PODCAST

  • Serial è il papà dei podcast true crime. Ogni stagione affronta un singolo caso in così tanti dettagli che viene voglia di aprire il proprio fascicolo delle indagini. La prima stagione è inarrivabile.
  • Veleno. Di lui ho già parlato, ma due cose veloci le dico comunque. Si tratta del podcast di Pablo Trincia, di recente trasformato anche in un libro che non ho letto, che tratta di uno sconvolgente caso avvenuto dalle parti di Modena. Diversi bambini sono stati allontanati per sempre dalle loro famiglie, accusate di reati allucinanti come satanismo e pedofilia. L'indagine su cosa sia davvero successo è da incubi.
  • Bouquet of Madness. Due amiche youtuber (delle quali una è Federica Frezza - prismatic310 -, ormai onnipresente su questo blog) si raccontano casi irrisolti e misteriosi da tutto il mondo. Adorabili loro e scelte benissimo le storie.
  • My favourite murder è quello che mi piace di meno. Ha una struttura molto simile a BoM ma trovo molto meno piacevoli le host. Ridere di cose tremende è per qualcuno accettabile, ma bisogna saperlo fare e non sono certa sia il loro caso.
  • Demoni urbani è tutto italiano, e racconta vicende di cronaca nostrane più o meno note. Interessante ma trovo un po' noiosa la scrittura, lo ascolto a piccole dosi.
I prossimi che ascolterò: Up and vanished, Missing&murdered: Finding Cleo, Believed, Morbid, The lost kids. Se ne conoscete altri io sono aperta ad ogni consiglio possibile!

TELEVISIONE
  • Unsolved Mysteries è una delle recenti aggiunte di Netflix. Sono pochi episodi e tutti (tranne uno) lasciano il cuore a pezzi. Un prodotto ottimo, ma fruirne con cautela, è devastante. Siccome è una nuova stagione di una serie storica, vi verrà la curiosità di scoprire com'era l'originale: sono quindici stagioni, tutte su youtube. Le trovate qui, buon viaggio.
  • Processi mediatici, sempre di Netflix. Nello specifico questo si concentra su come l'attenzione dei media possa influenzare non solo l'immagine pubblica di un reato, ma anche l'effettivo svolgersi del processo. I primi episodi soprattutto sono una bella batosta.
  • Vale se segnalo che su youtube ci sono anche tutte le vecchie interviste di Franca Leosini?
  • Dear Zachary non è una serie ma un singolo documentario. Quando l'ho visto io, tempo fa, era su netflix, non so se ci sia ancora. Con questo cautela assoluta, perché cadere dalla bicicletta e spaccarsi un braccio fa meno male di lui. Bellissimo ma straziante oltre le parole.
  • La scomparsa di Maddie McCann, sempre Netflix, sempre un caso di scomparsa. Questo poi l'ho guardato semplicemente perché era una storia recente che ricordavo personalmente. Senza infamia e senza lode per realizzazione.
LIBRO (perché è solo uno)
  • L'avversario, di Emmanuel Carrère. La ormai mitologica storia di Jean-Claude Romand e dell'omicidio che ha commesso ai danni della sua famiglia per coprire decenni di gravissime bugie. Primo Carrére che leggo, ha uno stile scorrevolissimo e senza fronzoli, che forse è il solo modo per raccontare una storia come questa. La storia è così incredibile da non poter essere altro che vera e il libro la racconta con la semplicità di un giallo da spiaggia.
Che opinione avete del true crime? Lo vivete come un modo per portare nuova luce su qualcosa che merita di essere rivisto o è davvero una voyeuristica mania di guardare la sofferenza altrui?

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