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giovedì 17 marzo 2016

#CiaoNetflix: Big Fish

14:23
Disclaimer: vi ricordate quanto eravamo andati a fondo in una marea di affari di cui giustamente non vi importa quella volta che abbiamo parlato di Harry Potter? Temo siamo dalle stesse parti, oggi. Me ne dispiaccio.

Quando ho deciso che i miei sproloqui sarebbero rimasti impressi in un blog, parliamo di tre anni fa, avevo un amore di quelli forti per un signore: Tim Burton. Avevo anche una rubrica tutta per lui, il Tim Burton Special.
Non che oggi gli voglia un po' meno bene, ma lui con me si è comportato malissimo ultimamente, gli serbavo un po' di rancore.
Ieri, poi, il trailer di Miss Peregrine's Home for Peculiar Children. Non esiste parola inglese che io ami più di peculiar. E non è solo questo, ovviamente, a farmi desiderare ardentemente che sia un bel film.
Lo spero così tanto perché quelle stesse mani lì sono quelle da cui è uscito Big Fish.

Big Fish è una storia fatta di storie. C'è la storia di Will Bloom, figlio messo costantemente in imbarazzo da una figura paterna un po' sopra le righe, e ci sono le innumerevoli storie che quel padre lì, Edward Bloom, ha raccontato per tutta la vita.


È sempre così: quando devo parlare di qualcosa che mi ha toccato in un modo particolare ci penso, ci ripenso, voglio sforzarmi di scrivere un post bello emozionante, per comunicare ad altri l'emozione che ho provato io. Poi apro Blogger, guardo la pagina bianca e mi blocco. Scrivo e cancello, scrivo e cancello.
Come si fa a convincere altri che un film può guardarti in faccia e parlare dritto a te, alle tue esperienze, ai tuoi sentimenti? Perché magari per altri non è così. Magari qualcuno può guardare Big Fish e uscirne indenne e poi magari finire a pezzi da una visione diversa.
Io no.
Io, che incredibilmente per una volta non ho pianto, sono rimasta invischiata fino al collo. Perché io sono Will, e Will è me.
È costantemente messo in imbarazzo da un padre 'troppo' (seguito da nessun aggettivo, troppo e basta), incapace di perdonarlo,  ma vive questo rapporto con il fuoco. Il fuoco di chi vuole sapere, di chi desidera la verità con l'ardore con cui altri la rifuggono. Il fuoco di chi vorrebbe essere in grado di staccarsi per sempre da quel padre così diverso da come lo avrebbe desiderato, così incapace di assecondare i suoi bisogni, ma che non ce la fa. Pur essendogli lontano continua a combattere per ottenere almeno un BRICIOLO della vita che avrebbe voluto.
Sarebbe stato facilissimo, a parole: tornare a casa per vivere gli ultimi giorni del padre, accompagnarlo verso la morte, e lasciar correre il passato. A chi importa delle storie, basta, è tutto finito.
E invece no, Will combatte fino alla fine per avere qualcosa, un briciolo di verità. Con la stessa determinazione, peraltro, con cui Ed continua a raccontare le sue storie.
E stanno lì, due teste una più dura dell'altra, a cozzare eternamente, senza che nessuno dei due provi nemmeno per un istante ad avvicinarsi all'altro. Perché sono già vicini. Sono già la stessa anima, ma mica lo sanno. Lo scoprono in quell'incanto di finale, quando, uno in braccio all'altro, incontrano i volti di quelle storie. Uno per uno, con quel sorriso che si indossa per salutare qualcuno a cui si sarà eternamente grati.
Grati di cosa, poi? Ed era solo se stesso. Meravigliosamente se stesso.


Quanto è difficile rileggere queste parole banalotte cercando di capire di chi sto parlando in realtà. Se di Will o di me stessa, che mi scontro costantemente con una persona da cui avrei voluto molto, molto più di quello che mi abbia mai dato. Che come Will non sono in grado di perdonare, e che per ora, proprio come lui ad inizio film, non voglio nemmeno.
È così labile il confine tra finzione e realtà, in Big Fish. Ora sta a me capire quanto questo prodotto di finzione abbia potuto farmi così male, toccando corde che non tocco mai nemmeno io, parlando di un argomento che non affronto mai, con la delicatezza che avrebbe avuto un caro amico se avesse parlato proprio con me di un argomento che avrebbe saputo essere controverso. Come controversa è la mia opinione sui tempi verbali dell'ultima frase, ma tant'è.

Lo ha fatto con i colori sgargianti delle casette e dell'erba, con un campo sterminato di giunchiglie e con una dolcissima storia d'amore, con dei personaggi incantevoli. L'ha fatto in piena poetica di Burton, elevata all'ennesima potenza. Ha sfoderato una batosta emotiva che non volevo, non in questo momento, non così inaspettata, non proprio legata a questo argomento.
Ma gliene sono grata.


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